La stanza delle meraviglie: la recensione di loland10
telegram

La stanza delle meraviglie: la recensione di loland10

La stanza delle meraviglie: la recensione di loland10

“La stanza delle meraviglie” (Wonderstruck, 2017) è il settimo lungometraggio del regista di Los Angeles Todd Haynes.
Dopo un anno da Cannes e otto mesi dall’uscita statunitense, ecco arrivare la pellicola anche da noi: non c’è che dire la distribuzione sincrona ed efficace…
Tratto dal libro omonimo di Brian Selznick (che ha scritto anche la scheggiatura), il film s’arrende all’evidenza dei fatti dopo il peregrinare dei personaggi tra le pieghe dei loro sogni e delle loro vite. Dallo stesso autore un altro libro ha portato sullo schermo ‘Hugo Cabret’ (2011) di M. Scorsese (altro livello per chi scrive).
Ben e Rose vagano in tempi diversi e in strutture dissimili, l’uno per ritrovare le sue origini famigliari e suo padre dopo aver perso la madre e l’altra per conoscere di persona il suo idolo, l’attrice Lilian Mayhew.
Paralleli, incastri di tempi, colori e luoghi, vie e musei: i visi di ciascuno si perdono e si ritrovano in una New York annerita, colorata, ingrigita e variopinta.
Il cinema nel cinema come escamotage di montaggi paralleli e di visuali da ripercorrere in una metropoli lontana e muta, più attuale e musicale, fino ad essere ricostruita in un plastico silente e addormentata da tutti. La cupezza delle immagini in controluce è in un oscuro desiderio del nulla o del tutto sbeffeggiano il cinefilo più incallito per un film che i personifica i livelli di lettura e le simbiosi di viste e diverse.
Il ventaglio è doppio, i colori si separano, gli effetti si incastrano e il montaggio riavvolge i tempi con sfumature, leggerezze, bastoni e persuasioni. Tra il 1927 e il 1977 ci sono cinquant’anni di lascito e due bambini corrono i due tempi per tornare indietro ai loro sogni e per correre avanti alla storia di ciascuno. Essere sordi, essere in silenzio, essere sogni, essere certi ed esserci: i due volti si scambiano, non si vedono, si spaventano, non si conoscono, si allargano e non conoscono mai.
Film non sempre lineare e immediato, certo è, in più fasi (nella prima parte) ha dalla sua il fascino poetico e i silenzi dovuti ai personaggi (sordi appunto) che diventano emblemi liberi di un immaginario di epoche diverse dal punto di vista del grande schermo. Da un cinema muto, in tutti i sensi, è in bianco e nero si passa ad un’ambientazione grezza, vivida e intrecciata degli anni settanta. Una New York asciutta e misera, spenta e fascinosa (siamo in piena crisi economica ad un passo dal crollo delle borse del ventinove) si compiace delle vie di Rose e del suo peregrinare. Si trovano inquadrature, fermi immagini e dolcezze di pellicole degli anni addietro: un ritrovare set, dal sorriso alla paura, dal chiuso ai voli di un bambino.
Con calma, silenzio e senso attonito di una meraviglia da sogno, ci si deve perdere e addormentare per cogliere il senso di vero tepore del film che percorre non il luogo in se, ma il se come stupore dello sguardo di infanti persi nel tempo delle movenze filmiche.
E’ il fascino tra grande depressione e forme ‘spente’ alla Fritz Lang (sagome e linee, ombre e vie) come si avverte il mentore vivo di un museo di Storia Naturale che ingloba il desiderio di Ben e della meraviglia di una stanza dove il suo amico Jamie ci porta per incontrare la nostra ‘storia’.
Il plastico della grande mela appare maestosamente compresso, visualmente triste, statisticamente ingombro. La spiegazione, lunga e quasi noiosa a Ben, del lascito di suo padre e della sua forza architettonica dirama alcuni dubbi ma toglie respiro e fascinazione ad un film che da versi e rime passa ad un prosaico forzato è troppo smorto.
La musica copre quasi sempre (per oltre metà pellicola) i silenzi dei personaggi e il loro reale mutismo, come lo scambio dei tempi (e della fotografia) ci offre toni e storie diverse. E’ un fuso orario continuo e aggrovigliato, non sempre addomesticabile, pur tuttavia ‘ci va volare e stare tra le nuvole’.
I due bambini reggono bene le situazioni, sia Oakes Fegley (Ben) che Millicent Simmonds (Rose) si trovano a proprio agio nello girovagare dentro lo schermo. Julianne Moore fa Rose da adulta ma anche l’attrice che lei stessa da bambina sta cercando.
Regia ad altezza giusta nella visionarietà dei due bambini.
Voto: 7/10 (***½)

© RIPRODUZIONE RISERVATA