“La talpa” (Tinker Tailor Soldier Spy, 2011) è il quarto lungometraggio del regista svedese Tomas Alfredson. Si è formato dirigendo produzioni tv, scrivendo per il teatro e programmi per bambini. Dopo “Office Hours” (2003), dirige “Four Shades of Brown” fino a “Lasciami entrare” (Lat den ratte komma in, 2008) con il quale attiene successo e premi a livello internazionale.
E ciò che “La Talpa” promette (in intrigo) mantiene (in regia-montaggio). Un film di classe dove l’attorialità e la posa di prima vale ed è encomiabile in ogni inquadratura, particolare, oggetto e panoramica.
Fa pensare a un vestito misurato, infilato, senza una piega, gessato, tenuto bene e dove ogni gesto corporeo tira la parvenza del racconto, la lealtà dell’immagine e la viltà mimetica degli sguardi.
Ecco che l’atmosfera de “Il sarto di Panama” (film di John Boorman del 2001 tratto dall’omonimo romanzo dello stesso John le Carré) tornano in sintonia a queste de “La Talpa”: è vero che siamo in ambientazioni diverse e in mondi diversi, ma l’incipit immaginifico rendono le due pellicole correlabili, speculari e nello stesso tempo contrastanti e asimmetriche nei modi e nell’inchiesta.
Un modo tenebroso, lancinante, affiorante danno la sensazione di opere che si lasciano trasportare dalla superficie degli eventi ma che rimarcano, inchiodano, spalancano le voracità dei personaggi e degli stessi interpreti. Una recitazione statuaria, inerme, sagace e, quasi, blues-white. Un ‘compiacimento’ recitativo fustigato dagli eventi, un conclamare l’arte teatrale con laconico sguardo esteriore. Tutto rimane così spudoratamente ai blocchi di partenza che quando parte l’ennesimo inghippo sulla ‘talpa’ da rifiutare nel cerchio riservatissimo dei fustigatori oltre confine, si ha la sensazione che la storia non sia mai iniziata. Un mondo quello dello spionaggio pieno di voraci sensi di discolpa e di occhiate soffocate dagli specchi inanimati di uomini irriverenti.
Precoce fiducia chi crede di non essere smentito nelle sembianze mascherate di un uomo attonito.
Filastrocca dei canti sublimi, intaso di falsi lumi, inchiostri spunti e talami, meschine voci di conclavi come acquazzoni dilavi, ogni gioco in mano tenevi una regina che dispone, una torre a lei depone.
Tinker, Tailor, Soldier, Sailor…
Richman, Poorman, Beggarman,Thief…
John le Carré (pseudonimo di David John Moore Cornwell) è stato un agente segreto del Secret Intelligence Service; è stato docente all’Eton College. Dal 1959 lavora come funzionario al Foreign Office; Lavora prima per l’Ambasciata del Regno Unito a Bonn e poi ad Amburgo. La sua esperienza gli fece avere una nomina presso l’MI6. “Chiamata per il morto” (1961) è il primo romanzo. J. le Carré dovette lasciare il S.I.S a causa di Kim Philby, un agente che faceva il doppiogioco col KGB; fu tale lo sbaraglio che molti agenti persero il cosiddetto anonimato. Lo scrittore britannico scriverà ‘la sua storia’ ne “La talpa” (‘Tinker, Tailor, Soldier Spy’) nel quale il protagonista George Smiley cerca di smascherare l’infiltrato non confinato (Gerald).
George Smiley è personaggio avveduto, ligio, corposo di parole, flemmatico, enigmatico: si confonde e ci confonde tra le nebbie londinesi e i falsi glamour di qualche festa depistante. Ciò che ricorda è il suo passato mai domo e la sua classe si trova dentro un tourbillon di faccende inseguite, frasi comunicate, voci controllate, depistaggi vorticosi e meandri dilanianti in quel che è il ‘Circus’.
La corruzione alta dei servizi segreti è fallace di verità inermi: tutto si scontra di qua e di là della cortina di ferro dentro la ‘Guerra Fredda’ in un glaciale tradimento e imperscrutabili gentiluomini che di fatto si annoiano a non dirsi nulla di false verità. Il KGB ritrova la vena prosaica di uno scrittore per lungo tempo sottovalutato.
In piena burrasca, nel groviglio della guerra fredda, un malcapitato spionaggio, un doppiogiochista, un fustigatore di notizie, un becero individuo e una sconquassata invidia fugace ridà desto alla scrittura di parte e alle parti scriventi di luoghi lontani. Quando il telefono era tale, quando la scrittura diversificava, quando la stretta di mano valeva (forse) qualcosa.
Film altamente claustrofobico, indenne di parvenze assonanti e di girovaghi schemi dentro il mondo opprimente e destabilizzante del puro spionaggio. In un mondo ingessato, stilizzato, aderente e cervellotico dove ogni mossa è cercare il nemico personale.
La postura degli attori è tale da non soverchiare ogni destabilizzazione spenta dallo sguardo ferreo di Smiley: il fermo immagine sugli occhiali del pensionato racchiude e schiude ogni mistero irrisolto. La talpa doppiogiochista si fa forza del nulla da cercare e del topo di fogna da nascondere: ma il colpo fatale raggiunge l’epilogo come saggio compenso di un narrare parolaio senza diga alcuna. Un mare allunga l’onda in ogni sabbione lascivo e qualsiasi bagnasciuga si lava la lingua di pensieri inferti da chiari neuroni ingialliti. Un metro che passa è la rincorsa ultima come il cuore distillato da liquori zuccherini e da voci mirini. Un girovagare di cinepresa e un ginepraio di prose come, forse, non s’era mai visto e sentito; un gusto implosivo e un nascondimento taciuto, un fiammifero acceso e un abbasso di ossigeno in ogni istante che è uno. Si entra dentro lo schermo nei suoi gesti servili e nei modi di posa: un mobile, una mano, un paio di occhiali, una tazza di te, un codificato, uno sguardo, uno specchio, un muro, un circondato, un quesito, un’attesa, un silenzioso battibecco, una fuga di idee s’allungano in superficie nella corrente dischiusa di un luogo sacrale.
Film altamente immaginifico nella stessa inquadratura dove ogni luogo (e successivo pensiero di memoria) diventa libertà di spazio impossibile, dove ciascuno cerca l’altro in un scontro irreale e dello sguardo avveduto non c’è passaggio ma solo trucco per lo spettatore. Ogni idea e ognuno che esprime un’idea è solo con se stessa/o: tutto rimane ferreo e impietrito. Il guardare il contro-set dietro una finestra, un corridoio, delle scale o il ballo virtuoso di una festa è solo gioco assecondante per chi si auto compiace e per il pubblico che si diverte nel prosaico fiume di segmenti smisurati.
Smiley si diletta nella cernita di tutti e si disfa delle scatole imbalsamate di ciascuno. La talpa si alza in ogni dove oltre-cortina e schiuma di rabbia in un implosione dirompente. Per tutto il film il non detto (ed è ovvio trattandosi di spie) soverchia e ingrigisce il detto (è ovvio trattandosi di un film di depistaggi). La movenza narrativa fluttuante sembra calma piatta ma s’inerpica in ogni salotto, studio, ufficio, appartamento e stanza al passaggio di un’ombra e del fendente annebbiato di un ricordo vacillante.
George sbatte gli occhi dentro le lenti dei suoi occhiali: penetrano lo schermo di una sala (cinema) e di un divano da tè con amici diletti e nemici rossi. In una città chiusa dentro il ‘Circus’ ogni potere logora di maestrie ingegnose e di ferro battente sul viso rigato.
In ambienti sopraffini dove l’edulcorazione della ricostruzione e il vestiario d’annata diventano profumo e sagacia tecnica di un racconto perso e di un dejavu accalorato. La camicia giusta, la giacca cadente, la cravatta dimessa, le scarpe a pelle, le auto d’ordinanza, i fogli di inchiostro, il telefono di cabina, il vetro di una finestra, la sedia spostata, gli odori trasmessi, il sentire impastato e i fruscii di una stagione avulsa e rattoppata. Nell’excursus di fiori secchi ecco che viene fuori un gusto sopraffino, un’eleganza acclarata, un londinese di classe, una fragilità umida, una nebbia impalpabile, un mobile aristocratico, una tazzina fumosa e un chiaroscuro gonfio di scheletrita memoria.
Ogni scena si specchia nell’altra e altresì ne rimane distante; ogni umore si ravvede dentro il proprio identico e ciascuna corsa di spia attecchisce nello sguardo compiaciuto di uno spettatore immerso nel fiume londinese che ridesta a sé la vita teatrante di un ruvido set.
Da sottolineare l’ironia mansueta degli ultimi due minuti: dove ogni loco si ridesta e ogni personaggio (ri)muore. Una canzoncina (allegra) val bene per un funerale. Chi sa se George ritrova (chi cerca?) la pace dentro una mano che non vediamo?
Il cast del film è sontuosamente in forma e il dialogo a due diventa monologo a se stante: una recitazione impertinente e tagliente. Un coltello e le parole s’infiltrano nelle vie ‘neuroniche’ di un qualsiasi via vai di cervello (imbiancato di capelli e di ricordi pre-muro).
Gary Oldman immagina lo Smiley interiore come meglio non si potrebbe (lasciando da parte ogni parvenza di somiglianza con George di le Carrè). Tanto lo stesso scrittore ha dichiarato: “…non è il film del romanzo. E’ il film del film, e a mio parere, un’opera d’arte a pieno titolo”.
Kathy Burke (Connie Sachs) ha un dialogo salottiero con Smiley da brividi ricordando tempi migliori, giovialità finite e schifezze (quasi) dimenticate. Un tè di una classe sopraffina.
Benedict Cumberbatch (Peter Guillam) regge la scena in ogni duo e le schermaglie dentro al Circus sono di raro ascolto visivo.
Colin Firth (Bill Haydon) poco visibile ma meschino al punto giusto.
Tom Hardy (Ricki Tarr) inietta sporcizia e si diletta nel fuoco degli sguardi.
Da menzione ogni singolo attore di circostanza e di importanza.
Scenografie (Maria Djurkovic) e costumi (Jacquelline Durran) di grande impatto visivo: ricostruzione sapiente e affascinante.
Fotografia (Hoyte Van Hoytema): un crepuscolo di brughiera.
Da ricordare che John Le Carré è uno dei produttori esecutivi del film.
Regia di Tomas Alfredson attenta e precisa (mai banale).
Voto: 8+/10.