La tenerezza: la recensione di loland10
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La tenerezza: la recensione di loland10

La tenerezza: la recensione di loland10

“La tenerezza” (2017) è il dodicesimo lungometraggio del regista Gianni Amelio.
Incastri di personaggi, nuclei famigliari in formazione o da formare, un nonno malato e i figli ancora da cercare, i vicini di casa e una coppia, i bambini e un nipote, una città e un avvocato, le scale e le stanze, il mare e le navi, sogni e silenzio, una città e i suoi segni.
L’ultimo Amelio (tratto dal romanzo di Lorenzo Marone ‘La tentazione di essere felici”) ridà forza a ciò che uno interiorizza in una vita con contrasti, durezze, forze vive e svarioni di ansia come di acuti malinconici tra mura sporcate e disegni da esprimere. Ecco che il non detto appare molto più incisivo e ficcante di alcuni colloqui o pensieri ad alta voce alquanto allungati come anche inermi nel contesto. Un film ‘morale’ che no dà lezioni ma cerca di prendere: il cinema dell’autore è sempre stato lontano da elucubrazioni mentali e facili retoriche: si deve riconosce una certa pulizia nelle immagini, un curato movimento di macchina, una giusta ripresa distensiva e un distacco sano dai suoi personaggi. Un cinema pulito, si direbbe, caustico, limato con parole soverchie e reazioni scomposte o meglio che sembrerebbero fuori contesto.
Certo manca una sintonia e una diramazione di intenti tra i luoghi esterni e i personaggi (o meglio gli atti recitativi): è un tu per tu sonnecchiante e silenzioso al vuoto interiore: il pathos è fustigato, annullato dalle stesse lunghe frasi e diramazioni e i giochi rappresentativi appaiono (in certi frangenti) scontati. Un certo cinema sociale e (neo)realista è ancora nel cuore del regista calabrese e un documentarismo lieve come poco incline all’eccesso sanno di lezione studiata e insita nel bagaglio culturale ma tendono ad essere una buona partenza come una zavorra che limita il film in certe situazioni che diventano rituali e quasi conosciute.
Lorenzo (Renato Carpentieri) è un avvocato in pensione. E’ appena uscito dall’ospedale. Ha due figli, Elena (Giovanna Mezzogiorno) e Saverio (Arturo Muselli) : rapporti distaccati e pieni di astio; conosce due vicini di casa, Fabio (Elio Germano) e Michela (Micaela Ramazzotti) , (venuti a Napoli) e i loro due bambini. Incontri, scontri, ricordi e ruggini vecchie; le situazioni famigliari di oggi e di ieri si accavallano e si intersecano. Una follia, sangue, disperazione e silenzi da colmare. Tutto in un trambusto di colloqui e di vie di Napoli quasi sconosciute (a tutti).
Lorenzo dice a Fabio di essere nato a Napoli e di non essere mai andato via: ma il film è troppo preso dentro per farci incontrare e vedere il fuori: si osservano mura vecchie, portoni, scritte laceranti, virtù dimesse e gente che scorre lontana da quello in primo piano. Appartamenti, scale, corridoi, camere di tribunale e d’ospedale: è ciò che il regista stringe a noi e a lui. Luoghi vivi dentro e spenti fuori. L’opposto (o quasi) dei personaggi che meriterebbero schiaffi: così come dice Saverio a sua sorella ‘merito uno schiaffo… dammelo’…’non ci penso nemmeno’ e fa gesti di una tenerezza al fratello come il padre che attende la mano di sua figlia. Il padre, vecchio e senza nessuno, si ritrova ad amare persone che non vede mai. I figli come i vicini.
Il lascito dell’infanzia del regista: “Ma non dovevate morire?” dice il nipote come il suo vicino Fabio in altro modo e Lorenzo ne conviene con: “ Ci ho ripensato…”. Il cinema quasi in fine d’opera che ripensa indietro e s’attarda nei grandi spazi sapienti di una casa piena di libri e di giudizi, nei rimbombi del palazzo di giustizia e nei lunghi corridoi di un ospedale ben tenuto. Tutto fuori il mondo periferico imbruttito fuori: solo le sporcizie di scritti e disegni sugli intonaci o colonne diramavano il mondo ma non certo non ne divide affinità e grandi vuoti. Il silenzio è di tutti i personaggi e le parole dette sono tutte inutili, futili ad ogni raggiro o raccordo di convenienza o di rapporto. Un mondo astioso e pieno di se. Nessuno si guarda realmente. E’ il cinema di una malattia post-moderna: l’isolamento senza social (unica fortuna i telefonini sono fuori e una partita di calcio sul p.c., in una stanza d’ospedale, è un pareggio per tutti: nessuno vince. E’ dei vinti il cinema di Amelio. Aspettiamo la tenerezza di un ‘vecchio’ (cinema) verso di noi perché ‘ai bambini si può dire tutto’.
Un racconto intimo, tenero e malinconico quello di Gianni Amelio dove la fotografia del milanese Luca Bigazzi vive con esso con immagini chiaro-scure quasi esauste. Della cerchia degli attori si vuole fare un plauso a Giovanna Mezzogiorno (e il suo vivere ‘sgomento’) e a Renato Carpentieri (e la sua sagoma penzolante).
Voto: 7/10.

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