Tra il 1992 e il 1993, in un intervallo di tempo che va dalle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui perdono la vita Falcone e Borsellino, alle bombe esplose a Roma, Firenze e Milano, lo Stato Italiano inizia una trattativa con Cosa Nostra per ristabilire un’equilibrio minato da provvedimenti come il 41bis (le misure restrittive ideate da Giovanni Falcone per impedire ai boss mafiosi di continuare ad esercitare il loro potere anche dal carcere) e gli accordi con i pentiti.
Gli agenti diretti del dialogo sono il colonnello del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) Mario Mori e l’ex Sindaco di Palermo Vito Ciancimino (di cui è rimasta famosa la definizione dell’ex Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli: “Consideravamo Ciancimino il più mafioso dei politici e il più politico dei mafiosi”), che si occupa di intermediare con Totò Riina, ottenendo dal “capo dei capi” richieste irricevibili e suggerendo quindi di sostituire Riina ai vertici di Cosa Nostra con Bernardo Provenzano, perché più ragionevole. La rete di comunicazioni, compromessi, bugie, scambi di favore e potere, minacce e omicidi che ne origina, è oggi oggetto di un processo iniziato il 7 marzo 2013, e del film di Sabina Guzzanti presentato fuori concorso al Festival di Venezia.
Costruito come una docufiction, intervallando materiale d’epoca, infografiche, interviste realizzate per il film, e vere e proprie ricostruzioni in studio, La Trattativa riorganizza una documentazione sterminata con il solo torto di mischiare con chiarezza altalenante i piani di racconto e di giudizio: attori (che tra l’altro si scambiano i ruoli) e personaggi reali; condanne passate in giudicato e processi ancora aperti; testimonianze giuridiche e ipotesi di dialogo basate su altro. Il film richiede quindi un notevole atto di fiducia nei confronti della sua autrice (sulla cui obiettività/serietà il giudizio è inevitabilmente personale), ripagando però con la passione didattica dell’esposizione, che non sacrifica né il piacere del racconto, né la tensione del puro dramma e qualche momento di alleggerimento.
Recuperando un’intuizione di Elio Petri (dal cortometraggio Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli), la regista romana fa inoltre saltare la quarta parete, entrando e uscendo dai set finzionali, esibendo in divenire trucco e parrucco dei suoi attori, e facendo loro scambiare i ruoli. L’idea, per sua stessa ammissione, è quella di dichiarare il gesto di impegno civile e al contempo guadagnare spazi creativi: al fondo del grande studio che ospita le riprese un maxischermo restituisce proiezioni e scenari artificiali, rendendo fluida la connessione tra i piani di racconto (anche troppo, come si diceva sopra). L’efficacia è notevole: il film informa, appassiona, indigna e commuove, chiamando in causa tutti, dai soliti noti fino a Scalfaro e Napolitano. Non saprei dire quanta opionione sarà in grado di spostare, probabilmente poca, ma al di là del dibattito che ne sorgerà sembra per lo meno un documento utile, e non è poco.
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Mi piace: il mix tra gesto di impegno civile e ricerca dello spazio creativo, sfondando la quarta parte.
Non mi piace: un film a tesi e schierato; e come tale potrebbe scontentare chi non condivide la visione politica dell’autrice.
Consigliato a chi: ama il cinema d’impegno e ai fan dei Guzzanti.
VOTO: 4/5
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