La vendetta di un uomo tranquillo: la recensione di loland10
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La vendetta di un uomo tranquillo: la recensione di loland10

La vendetta di un uomo tranquillo: la recensione di loland10

“La vendetta di un uomo tranquillo” (Tarde para la ira, 2016) è il primo lungometraggio del regista attore spagnolo Raùl Arévalo.
Crudo realismo e vendetta senza sconti: luoghi, visi e forme strutturate verso un obiettivo di non farci piacere nessuno. Ma ciò che vediamo è un incontro cruento con il destino.
Efferatezza e mattanza individuale: film che ripiega il suo status simbolico solo sull’incontro (efficace e alquanto indigesto) criminoso che cova (intimo e represso) dentro il personaggio Josè.
Rapina, un uomo in auto, fuga e sirene della polizia, sangue e folle corsa: tutto dentro l’auto; una ripresa dentro la velocità di un malvivente. Un incidente, una giravolta e mentre l’uomo (incolume) tenta di uscire dalla portiera, gli uomini armati sono già lì per arrestarlo. Curro è l’uomo che guida l’auto e la fuga da una rapina finita male.
Ecco che la musica si alza e i titoli si aprono sullo schermo con lettere grandi e cubitali. Alla qualcos’altro. E’ un giallo che fa da apripista al rosso sangue di un uomo che vede la vita (solo) come restituzione della ‘morte’ per quello che ha subito.
Uno sguardo, uno dentro l’altro tra Josè (Antonio de la Torre) e Curro (Luis Callejo): due perdenti (o finti vincenti) di luoghi, fatti e donne. Forse uno appaia l’altro: a ciascuno (tocca) il suo. La vendetta non è solo un piatto freddo ma è uno scarico di tensione micidiale, tetro, metallico e sporchissimo. Un rinsacco sotterraneo, un porcile e un retro di un bar per il regista sono la stessa cosa, un luogo univoco di persone che non vanno oltre il gioco, il tavolo e il linguaggio scevro di ogni volo pindarico.
Col fiato sul collo, con lo spasmo sul volto, con le rughe sudate, con le mani insanguinate e con un’auto che è ‘on the road’ magnetica dei compagni di giro. Un gioco che s’accomuna ai ‘migliori’ (o ‘peggiori’) giustizieri filmici con un lascito accattivante di volti insulsi e inutili contrapposto a un risvolto di sottobosco ‘sociale’ alla meglio senza pensare né al prima e tantomeno al dopo. L’auto di Josè che scompare dietro la curva è un epilogo compiaciuto e soporifero tendente all’eroismo deprimente come alla fuga costante: è la fine che lascia dietro un duello western di sola andata. La post-modernità accomuna il regista in una metafora (irreale) o in una reale (vera metafora) di una guerriglia quotidiana dove c’è solo l’agire e nulla del pensare (evitando il ponderare). Si guarda ad oggi. E gli episodi tragici che sentiamo e come non ricordare il forte simbolismo (dal libro di Vincenzo Cerami) di ‘Un borghese picolo piccolo’ (1977) di Mario Monicelli con un’acutezza funerea sulla società di ieri (e di oggi) da far accapponare la pelle per lo stile del regista romano. Siamo in altro campo visivo. Lì per il figlio, qui per una donna. La famiglia macerata.
Film, questo,sporco, guerriero, corposo e volgare. Diviso in quattro parti e quattro nomi (e nient’altro).
Bar: ritrovo classico di gente che non sa cosa esprimere, una partita a carte, linguaggio volgare e virilità repressa.
Ana: una donna che sta tra due ‘padroni’; Curro che ritrova dopo otto anni di prigione e Josè che cerca buona compagnia;
Famiglia: è tutto per tutti, ognuno a suo modo, ma le cose sono difficili e il sangue genera sangue;
Vendetta: villosamente forte con un cacciavite e un fucile che ha sempre colpi in canna.
Alla fine diventa un film indigesto dove non esiste nessun risvolto di apertura. I personaggi sono soli con se stessi, in mezzo a casolari dispersi, radure svuotate, strade polverose e corpi da tuta da vendere. Uno sguardo continuo di odio.
Regia di soppianto e sudorifera, salmastra e pestifera, nitida e scorretta.
Film da vedere (senza particolare bramosia) per non misurarsi con il luogo comune, Veritiero e per nulla addolcito.
Voto: 6+/10.

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