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L’albero: la recensione del coraggioso esordio di Sara Petraglia dalla Festa del Cinema di Roma

La regista, figlia dello sceneggiatore Sandro, racconta la tormentata e dolorosa amicizia di due giovane ragazze sprofondate nell'abisso della dipendenza da cocaina, interpretate da Tecla Insolia e Carlotta Gamba

L’albero: la recensione del coraggioso esordio di Sara Petraglia dalla Festa del Cinema di Roma

La regista, figlia dello sceneggiatore Sandro, racconta la tormentata e dolorosa amicizia di due giovane ragazze sprofondate nell'abisso della dipendenza da cocaina, interpretate da Tecla Insolia e Carlotta Gamba

L'albero Sara Petraglia
PANORAMICA
Regia
Interpretazioni
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

Bianca (Tecla Insolia) ha 23 anni e le sembrano già troppi. Se n’è andata da casa dei suoi, dovrebbe fare l’università, ma non ci va mai. Ha poche, precise ossessioni: il tempo che passa, la cocaina, e Angelica (Carlotta Gamba). Da quando vivono insieme, tutto corre più veloce, precipita. 

Anche la loro amicizia, che inciampa nella dipendenza e si confonde con l’amore. Bianca ha un quaderno, ci scrive sopra appunti per i suoi libri, ma vorrebbe scriverci tutto: che la gioventù è dolorosa e sta già finendo. Che l’amicizia spezza il cuore. Che perdiamo tutto continuamente, e però alla fine, forse – tra le strade notturne di Roma, i ragazzi di Napoli e l’albero che si intravede muto dalla finestra di casa – nessuna cosa andrà perduta.

L’albero, esordio alla regia di Sara Petraglia (figlia del noto sceneggiatore Sandro), inserito nel Concorso Progressive Cinema della Festa del Cinema di Roma 2024, è un raro esempio di film italiano che non ha paura di raccontare il disagio della post-adolescenza e la tossicodipendenza di due ragazze giovanissime da una prospettiva agiata e borghese, mostrando la loro schiavitù dalla cocaina per quello che è, ripercussioni fisiche ed effetti collaterali compresi, senza nascondere i tremori e i craving e soprattutto senza imbellettamento alcuno, anche per quel riguarda le bugie (anzitutto quelle dette a se stesse), i vizi e il senso di vergogna che puntualmente sopraggiungono in situazioni del genere. 

C’è dell’evidente coraggio, nella maniera in cui Petraglia tratteggia una vicenda dai tratti autobiografici, nella quale l’addiction dalla polvere bianca va di pari passo con la dipendenza affettiva che s’instaura tra Bianca e Angelica, interpretate con vivido trasporto e adesione totale e spassionata da Insolia e Gamba. Non solo per la forza nel restituire con pienezza impudica qualcosa che si vorrebbe sempre osceno e rimosso, nella media delle produzioni nostrane, ma anche per la precisa volontà di non nascondersi mai dietro un dito, evitando qualunque giudizio morale sulle protagoniste e mostrandoci tra poesia e autolesionismo la loro quotidianità costantemente ravvivata – e al contempo, a lungo andare, annichilita – dall’abitudine a sniffare. 

La malinconica e tormentata idea di giovinezza de L’albero si snoda sotto l’egida di Giacomo Leopardi (come scrive Bianca sul suo quaderno: La luna che tramonta per Leopardi è come la giovinezza che se ne va, solo che la luna la sera dopo ritorna), archetipo di una sensibilità giovanile in cui lo struggimento fa rima con un insopprimibile stupore nel guardare al mondo (Perché siamo tutti così tristi?, si chiede Bianca sulla sua generazione schiacciata da disattese promesse di futuro).

Del poeta recanatese le due ragazze hanno anche un ritratto nella loro casa al Pigneto, da dove vedono l’enorme albero del titolo, che troneggia da qualche parte tra Casilina Vecchia e il Mandrione (a tal proposito, sulla loro stessa collocazione, loro stesse hanno idee diverse, e non è la sola cosa su cui divergono). A Roma intanto soffia un vento freddo, una rarità per la Capitale, come a presagire un inverno della vita in cui le ragazze si ritroveranno una accanto all’altra, tra la speranza di abbandonare le loro abitudini più malsane e l’avvilente riproporsi di una coazione a ripetere che invece non lascia loro scampo.

Quelle de L’albero sono infatti due solitudini che si specchiano l’una nell’altra, condividendo di fatto tutto, anche le terribili crisi di astinenza che puntualmente sopraggiungeranno: un abbraccio mortale eppure, da qualche parte, irrimediabile salvifico, incorniciato dalle note di Sergio Endrigo e dei Diaframma (la conclusiva Io ho te suggella uno struggente tentativo di rimane aggrappate l’una all’altra, nonostante tutto). A fare da cornice ai loro destini c’è una Città Eterna che odora e pulsa pericolosamente di morte, un sarcofago che non teme di fagocitare solitudini e mancanze.

Di fatto, vendendo il film (che sconta le perdonabili carenze di un’opera prima, specie in scrittura e nell’ultimo atto) è come se le due protagoniste ne forgiassero il punto di vista direttamente, accompagnando lo spettatore nelle proprie scorribande crude, vitali, inevitabilmente disperate, segnate dall’impossibilità di abbracciare totalmente la pienezza dell’altra, in un tentativo doppiamente struggente proprio perché destinato al fallimento. Non ci sono adulti a potersene fare carico (i genitori, fuori campo e non raccontati, si limitano a elargire i loro 1000 euro al mese a Bianca, quasi tutti spesi in polverina), e resta solo l’istantanea tremante di una giovinezza perduta, sfiorita, recisa.  

Foto: Sara Petraglia

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