I film di Kaurismäki sono un po’ tutti uguali. Vero, ma sono anche incredibilmente diversi da tutto il resto in circolazione. In oltre 30 anni di carriera, il regista che viene dal Nord ha costruito un universo immaginifico tutto suo, unico non solo per il fascino esotico che una cinematografia periferica e piccola come quella finlandese può suscitare, quanto per la poesia surreale e dolce-amara con cui parla di problemi universali quali disoccupazione e immigrazione.
Attraverso i suoi anti-eroi radicali, i suoi pittori squattrinati dall’animo troppo puro, i suoi operai generosi dalle scarpe bucate, i suoi rockettari fuori tempo massimo, i suoi cuochi alcolizzati, i suoi cagnolini dallo sguardo compassionevole, Kaurismäki ci porta in viaggio sempre per lo stesso mondo.
Un mondo congelato in un tempo che fu, in un vago passato prossimo dalla mobìlia retrò, macchine da scrivere al posto dei computer, giradischi al posto di Spotify, Cadillac anni ’60 al posto dei Suv (del resto «le macchine odierne sono prive di personalità»).
Un mondo dipinto dalla splendida fotografia del sodale Timo Salminen che, quando non usa un raffinato bianco e nero, si nutre di cromatismi netti, di un’inconfondibile palette di rossi porpora, bianchi perla, verdi petrolio, arancioni ruggine, blu cobalto. Il tutto “sporcato” dal perenne fumo di sigarette.
Un mondo dove la macchina da presa è quasi sempre ferma, frontale, con una marcata predilezione per primi piani immobili come fototessere.
Un mondo dove si beve tanto, troppo, fino a cadere a peso morto sul tappeto di casa.
Un mondo dove non si parla (il suo Juha nel 1999 è stato proclamato con orgoglio “l’ultimo film muto del XX secolo”) o si parla poco, con dialoghi radi e asincroni, più che altro pause di silenzio intervallate da parole, perché solo gli occhi sanno dire la verità.
Un mondo dove i personaggi non ridono mai apertamente, e dove eppure l’umorismo traspira quasi in ogni inquadratura. Un’ironia raffreddata tipica di quelle latitudini, uno white humor acuto e ridotto ai minimi termini dove la risata pare una superflua stravaganza.
Un mondo intriso di musica: il tango finlandese, il folle folk finnico-sovietico-americano dei Leningrad Cowboys, il blues anni ’60 e il rock di quella terra.
A sei anni da Miracolo a Le Havre, possiamo finalmente tornare nel Kaurismäki-mondo con L’altro volto della speranza (in sala dal 6 aprile). E ovviamente, dal porto della città francese a quello di Helsinki, poco cambia. Nello stesso scenario urbano desolato e invecchiato di qualche decennio, incontriamo così un altro degli ultimi kaurismakiani: un rifugiato siriano sbarcato quasi per caso nella capitale finlandese e che vediamo per la prima volta col volto annerito dal carbone, quasi a voler segnare una sorta di continuità col bambino di colore del precedente film. La sua storia si intersecherà con quella di un venditore di camicie che, abbandonata la fede nuziale sul tavolo e vinta una bella somma a poker, decide di cambiare vita aprendo un ristorante: La pinta dorata. Un locale scalcinato dall’arredamento vintage, dove si servono sardine in scatola, con un estemporaneo poster di Jimi Hendrix alle pareti, che non può che riecheggiare l’altrettanto salvifico Ristorante Lavoro di Nuvole in viaggio (1996). Ma sono tantissimi i rimandi alla cinematografia di Kaurismäki, ai suoi luoghi, ai suoi personaggi (compresa un’apparizione dell’attrice feticcio Kati Outinen a cui viene offerto un lavoro da capo-cameriera come in Nuvole in viaggio; lavoro che lei rifiuta per andare in Messico, chissà, forse, per raggiungere Taisto, Irmeli e il loro piccolo bambino conosciuti in Ariel). Dunque sì, film di Kaurismäki sono un po’ tutti uguali perché si incrociano l’un l’altro, e in questo fanno da cassa di risonanza alla sua originalissima poetica e al suo inno alla solidarietà tra uomini.
E sì, perché una società più umana è l’unica risposta alla deriva del mondo, alle guerre, alla disoccupazione, alle ingiustizie. Lo era 30 anni fa e lo è in quest’ultimo film, dove l’altro volto della speranza è, appunto, un povero che è disposto ad aiutare un altro povero. Perché siamo un po’ tutti Khaled, così siamo un po’ tutti Daniel Blake. Tutto questo Kaurismäki lo dice senza alcuna retorica, e infatti prima di aiutarsi ci si prende letteralmente a pugni. L’altro volto della felicità è insomma una favola amara che, sotto l’umorismo raggelato (la gag del sushi è geniale), lascia trasparire un grande calore. Un film puro, cristallino nella sua sincerità, che si è meritatamente aggiudicato l’Orso d’argento all’ultimo Festival di Berlino dove è stato presentato in anteprima lo scorso febbraio.
Definito da tanti come l’ultimo erede di Chaplin, Kaurismäki può essere altresì accostato ai fratelli Dardenne e al già citato Loach per la coerenza estrema, quasi talebana, di tematiche e stile. «L’unica cosa che resta a un uomo è il proprio stile. Fino a quando ne avrà uno potrà mantenere almeno intatta la propria dignità» ha detto il regista. Be’, in L’altro volto della speranza, ancora una volta, lo stile è rimasto, inconfondibilmente, lo stesso.
E ancora una volta ci troviamo davanti il solito, magnifico, film di Kaurismäki.
Nota finale: il film è dedicato alla memoria di Peter von Bagh, critico e studioso finlandese morto nel 2014, il primo a scoprire il talento di Kaurismäki diventandone, manco a dirlo, grande amico e compagno instancabile di dialoghi sul cinema, la vita e la vodka (per citare il bel titolo di un suo preziosissimo libro).
Mi piace:
La poesia surreale e velata di ironia amara tipica del regista finlandese con cui parla di problemi universali quali disoccupazione e immigrazione.
Non mi piace:
Quasi nulla (ma è il parere di una fan sfegata di Kaurismäki).
Consigliato a chi:
A chi vuol vedersi il solito, magnifico, film di Kaurismäki. A chi ama le favole amare che, sotto l’umorismo raggelato, lasciano trasparire un grande calore umano.