Pur non essendo magistrale come The Social Network, anche Gone Girl trivella in profondità il mondo delle relazioni umane e lo fa usando come focus d’osservazione la coppia, cellula sociale di base particolarmente radicata nell’immaginario nordamericano. Se quella di Mark Zuckerberg era l’epopea di un single nerd desperado con la fissa di entrare nei club universitari più esclusivi come riscatto a una vita da giovane loser, qui apparentemente si vuole smontare l’istituzione del matrimonio ma per demolire in realtà – strato dopo strato – la cornice più ampia, quel tessuto sociale intriso di perbenismo e ipocrisie yankee, che – complici i media e i social network di cui sopra – è sempre più alla deriva.
Il film si apre con Nick (Ben Affleck) che accarezza la testa della sua compagna e confessa allo spettatore di volergliela rompere, per poter scoprire cosa c’è dentro. Ma come siamo arrivati a tanta aggressività tra due coniugi? Rewind. Come per ogni coppia che si rispetti, si parte dall’idillio. Amy (Rosamund Pike) e Nick (Ben Affleck, a 40 anni sempre perfetto come fidanzato rassicurante over 30) sono belli, divertenti, brillanti e talmente appassionati da sfruttare ogni superficie per i loro amplessi infuocati. Scrittori in carriera entrambi, sebbene di estrazione diversa, si conoscono, si innamorano su uno sfondo newyorchese da cartolina; hanno un “loro” gesto romantico, e anche dei rituali come la caccia al tesoro per l’anniversario, corredata da lettere con indovinelli. Tutto procede magnificamente fino al giorno in cui non arriva la Crisi con la C maiuscola, che li fa licenziare e li scaraventa senza soldi nel pigro Missouri, dove prima si inganneranno a vicenda e poi pertanto si odieranno.
Sarà nel giorno del loro quinto anniversario di matrimonio che Amy diventerà la Gone Girl del celebrato romanzo di Gillian Flynn (anche sceneggiatrice), la ragazza sparita, dissolta nel nulla, sulle cui tracce si concentrerà – oltre alla polizia – un’intera nazione, giorno dopo giorno sempre più convinta che quel fidanzato apatico e con la faccia sorniona (Affleck perfetto in parte) altri non sia che l’assassino della donna e che basti trovare il cadavere per poterlo mettere in gattabuia. Sul “corpo” svanito si celebra la danza dell’odierno circo mediatico che influenza e inquina le vere indagini poliziesche, decretando i colpevoli prima ancora delle sentenze.
Non vi diremo altro o rischieremmo di rovinare un thriller movimentato da innumerevoli twist che si succedono senza tregua. Attraverso cui si srotola un giallo dal sapore hitchcockiano, sicuramente il più hitchocockiano dei film di Fincher, con una Rosamunde Pike immensa e sorprendente, che sa farsi clone 2.0 delle bionde di ghiaccio del grande Hitch.
Un film stratificato, dicevamo all’inizio, che all’interno di un complicato rompicapo poliziesco mescola horror e farsa, per farsi al culmine dramma morale. Fincher punta il dito sulla menzogna come pietra angolare della relazione e sulle smanie di protagonismo dell’uomo medio: non c’è personaggio nel film che non indossi una maschera, che non voglia apparire in Tv, postare un selfie su Twitter a braccetto con il presunto assassino. Sostiene Fincher: abbiamo barattato l’essenza con l’apparenza. E lo fa spiegare molto bene a un avvocato difensore: “Digli la verità e non ti crederanno, offri loro una confessione ben recitata e ti ameranno“.
Sulla carta Fincher ha avuto una grande idea: calare La guerra dei Roses ne La donna che visse due volte. Su tutti gli eventi, anche i più macabri e paradossali, spruzza un’ironia greve molto divertente, che serve a controbilanciare la negatività che domina il tutto ma che, progressivamente, fa survoltare il film e trasforma i personaggi in caricature, con una mancanza di misura che poco si addice al regista di Se7en e che più di una volta, specie nella rocambolesca parte finale, pretende un eccesso di sospensione dell’incredulità.
E tuttavia, va detto che è un gran film, dove regia, colonna sonora, dialoghi perfetti e colpi di scena si amalgamano con sapienza. Il regista costruisce un mosaico di cui ci consegna a ogni passaggio un tassello, frutto di uno script così ben congegnato da non presentare falle. Che rivela la sua ambizione nello scivolare senza passaggi bruschi dal thriller all’horror splatter per poi rinquadrarsi in una farsesca screwball sulla guerra dei sessi dal retrogusto molto amaro. E anche questa sua sfuggente identità è fonte di merito.
Dove sbaglia? Nel solleticare molto bene il cervello senza riuscire davvero a incidere nella carne come la sua cupezza intrinseca e la sua sfiducia antropologica avrebbero richiesto. I guasti del perfezionismo.
Leggi la trama e guarda il film
Mi piace: l’architettura ben congegnata del thriller. L’interpretazione stupefacente della Pike
Non mi piace: l’eccesso di cupa ironia che più che stemperare i toni thriller-horror modifica il “gusto” dello spettatore
Consigliato a chi: ama le strutture a rompicapo e i colpi di scena, la regia raffinata di Fincher
VOTO: 4/5
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