Elia (Toni Servillo) è uno psicanalista ebreo molto severo che mette in soggezione i propri pazienti, cui non promette la guarigione ma tutt’alpiù un’analisi approfondita della sofferenza. Anche perché, tirchio com’è, conforma la sua attività lavorativa al vecchio adagio secondo cui “ogni paziente guarito è un paziente perso”. Ma c’è di più: negli anni l’uomo ha sviluppato una certa apatia e ripetitività verso il lavoro; è separato dalla moglie Giovanna (Carla Signoris) di cui è ancora innamorato e con cui condivide lo stesso pianerottolo (tanto che questa continua a fargli il bucato e a preparargli dei manicaretti); quando si concede un’uscita fuori è per scroccare una cena al figlio proprietario di un ristorante e, per completare il quadretto “motivazionale”, non frequenta più da tempo la sinagoga. Il ritratto di un uomo appassito che galleggia all’interno del sistema delle sue abitudini, addormentandosi o mangiando pasticcini autogratificanti durante le sedute. L’inattività e il consumo smodato di dolcetti, però, gli alzano la glicemia a livelli vicini al diabete, tanto che – a causa di un malore improvviso – il medico di fiducia gli impone di fare attività fisica.
L’uomo, tutto Freud e opera lirica, si imbatte così in una effervescente personal trainer spagnola che gli propone sedute private, per arrotondare lei e far risparmiare il pitocco. Tra i due si innesca quindi una relazione terapeutica per entrambi, perché Elia si trova catapultato nel mondo senza regole e pieno di casini di Claudia (Verónica Echegui), mentre quest’ultima – ragazza madre con la passione per i poco di buono e i galeotti – trova una figura di riferimento quasi paterna a cui appoggiarsi.
Si muove nell’ambito della commedia sofisticata d’ambiente borghese il secondo film di Francesco Amato (Cosimo e Nicole), strizzando l’occhio dichiaratamente al cinema di Woody Allen (rievocato sia tramite le origini di Elia sia nella scelta del tema psicanalitico), poi abbandonato in corsa per virare verso la slapstick comedy, con tanto di inseguimento forsennato per le vie di Roma. Non è la prima volta che il cinema (specie hollywoodiano) affronta il tema della trasformazione/redenzione di un uomo grigio e stanco grazie a un personaggio femminile travolgente e sopra le righe, e il film segue questa traccia con garbo e un umorismo leggero, ingredienti da considerarsi già di per sé un bel cambio di marcia rispetto agli standard usuali della commedia italiana.
Servillo (qui la nostra intervista all’attore) si presta con naturalezza ai panni del personaggio intellettualmente molto snob, tanto che la sua sprezzatura iniziale sembra traslata dal sorrentiniano Jep Gambardella. Così come l’ispanica e vulcanica Echegui è azzeccatissima nei panni dell’energica Claudia che lo guida nel processo del “lasciarsi andare”. Ne consegue una piccola commedia graziosa con un testo che non ha l’ambizione alleniana di ironizzare sulle nevrosi, ma semplicemente di mostrare come basti sfondare il proprio guscio personale, per aprirsi a un’esistenza più libera e viva.
Tra i momenti più felici e spassosi del film: la parentesi ipnosi con il fidanzato galeotto di Claudia interpretato dal sempre sorprendente Luca Marinelli. A sottolineare come il pregio più evidente di questa commedia siano le scelte di casting tutte appropriate, anche quelle dei personaggi minori (i cui tempi e spazi sono dosati con molta cura), vedi il trainer Pietro Sermonti, l’infamissimo rivale Giacomino Poretti, il calciatore Giulio Beranek, lo sfasciatissimo criminale Vincenzo Nemolato e il paziente fifone Carlo Luca Ruggieri.
Mi piace: la scelta degli attori molto indovinata e la leggerezza del tono.
Non mi piace: la tensione verso il cinema di Woody Allen che qui si fa più farsesca e meno sofisticata.
Consigliato a chi: ama la commedia garbata e intelligente.
VOTO: 3/5
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