LA STORIA
Lazzaro (Adriano Tardiolo), un giovane contadino così buono da essere ritenuto da tutti un sempliciotto, vive, proprio come Tancredi (Luca Chikovani), un elegante e spregiudicato nobile suo coetaneo, in un villaggio agreste ancorato a tradizioni rurali, Inviolata, dominato dalla marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), la “regina della sigarette”, nonché madre di Tancredi. Quest’ultimo chiede a Lazzaro di aiutarlo a mettere in pratica il proprio rapimento: l’amicizia tra i due sarà uno scossone per Lazzaro, ma avrà anche dei risvolti inaspettati…
LA CRITICA
Lazzaro, il protagonista del nuovo film di Alice Rohrwacher, nei primi minuti del film non è altro che un’evocazione flebile, un nome sussurrato, una specie di oracolo che le parole di coloro che lo chiamano investono di intimità e dolcezza. Il suo è uno sguardo candido, da agnellino bonario, immerso in un microcosmo campagnolo altrettanto integro e incontaminato: inviolato, appunto, come il nome del luogo suggerisce direttamente, secondo un procedimento di ridefinizione fiabesca della realtà (e dunque anche della tradizione italiana del neorealismo) che la regista ha già dimostrato di sentire assai nelle sue corde.
Rispetto al suo buon esordio Corpo celeste e al più fragile e ombelicale Le meraviglie, che nel 2014 a Cannes aveva strappato un generoso Grand Prix, la maturazione dell’ex sorella meno famosa di Alba, divenuta a questo punto autrice con la a maiuscola, è totale e stupefacente. La Rohrwacher inscena un microcosmo laziale con attori anche non professionisti, azzera la sensazione dell’artificio, assembla in un abbraccio fluido cose e persone (la Braschi è usata in modo geniale). A cominciare dall’incredibile protagonista esordiente (una “metafora che cammina”, fin dal nome), che si fa carico di tutto il dolore del mondo attraverso degli occhi irripetibili e inequivocabili, che sono fessure umide, ingenue, sgranate, bagnate.
Proprio come la terra – italiana, universale – che Lazzaro felice dimostra di amare di tutto cuore, con generosità d’animo e di sguardo. È un film semplice e diretto pur nelle sue asprezze, Lazzaro felice, aulico ma sempre umile: alla regista riesce il miracolo di condensare praticamente tutto il meglio della nostra tradizione cinematografica e letteraria, da Olmi a Fellini passando per Buzzati, De Sica e un finale da martirio pasoliniano da pelle d’oca. Muovendosi rasoterra, sospinta da un vento onirico, ma guardando sempre in alto, a un cielo spietato tanto quanto la natura matrigna che sovrasta.
Il dialogo con una luna silenziosa e disinteressata, dopotutto, fa di Lazzaro felice il film più leopardiano del nostro cinema recente, persino più de Il giovane favoloso di Martone. Le distese agresti diventano così crateri lunari, come una parabola di San Francesco in chiave visionaria: cinema come possibilità, come tentativo, come resurrezione impossibile da macerie che siamo abituati a dare fin troppo per scontate. Come azzardo – commovente – di un disegno, di una visione del mondo che ipotizzi lo stupore dell’impossibile.
La grandezza di questo cinema col bollino d’autore incorporato, eppure così vivido nel grigiore e così popolare nell’austerità di spazi e ambienti, sono la sua purezza, la sua integrità morale, il modo primitivo di guardare all’infelicità, all’impossibilità ancestrale di sopravvivere alle brutture del mondo.
Un film-laboratorio, tanto che tra i bene informati corre voce che la regista abbia finito di montarlo solo pochi giorni fa, con gran fiducia da parte di Cannes che la adora e coccola fin dai suoi esordi. Animato da un coraggio che non si stanca mai nemmeno per un secondo di sperimentare, sporcandosi le mani coi corpi e coi volti, senza supponenza, con la semplicità di una fiaba arcaica scandita e sillabata a un bambino prima della nanna. Con amore e solo per amore, addormentandosi con l’utopia – vana, ma non importa – di risorgere felici, di alzarsi e camminare come santi in un mondo di lupi.
Mi piace: la capacità sensazionale da parte della regista di tenere insieme il proprio sguardo in un film-laboratorio, una sfida anche difficile da veicolare e intavolare
Non mi piace: la seconda parte è senz’altro più sfilacciata della prima, ma è un “difetto” che serve ad aprire il film verso utopie e resurrezioni impossibili, nuovi, incerti e dunque stimolanti scenari
Consigliato a: chi cerca un cinema italiano scolpito nella realtà e nella terra ma raffinato, coraggioso, visionario, capace di sintetizzare il meglio della nostra tradizione artistica, di essere meravigliosamente italiano
Voto: 4/5
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