“Lazzaro felice” (2018) è il terzo lungometraggio della regista di Fiesole Alice Rohrwacher.
Dal Festival di Cannes dove è stato premiato per la sceneggiatura originale ad opera della stessa regista. È subito distribuito nelle sale, strano a dirsi, per un mese di giugno dove l’appetito per il grande schermo non è mai una prova di partecipazione. Il pubblico ha voglia di stare dentro una sala? Una domanda d’obbligo quando si vedono schermi illuminati che guardano se stessi.
E così esiste un cinema italiano che cerca di andare oltre lo schermo, di sperare in qualcosa oltre un orizzonte, di osservare un’interiorità labile di persone statuarie e spinose, ultime e prime. In un’area piena di lavori, piena di odori, piena di vestiti e robe accalcate, piena di tanti in poco spazio si intravede un’umanità oltre il nostro percepire, si osserva un fuoco sopra i nostri sguardi e si percepisce un didentro tenue, poco colorato, invisibile che resta nel non detto o non visto.
I volti, le facce, i visi e i gesti dei mezzadri (non sanno altro…lavorano per mangiare, nessun contratto, nessun orario e nessun posto decente per dormire e sbrigare le faccende personali) sono da incorniciare: vengono da quello che ci ostiniamo a non vedere.
Lazzaro vive in una comunità di contadini, si dà da fare in tutto, aiuta e vuole bene a tutti sopratutto al suo amico Tancredi; la Contessa costringe tutto il gruppo ad un lavoro durissimo tra povertà e miseria; poi Lazzaro rimane da solo a cercare l’amico. Per caso, dopo un passaggio, si ritrova vicino ad una ferrovia di una città con un altro gruppo di persone che conoscono il suo nome. È un girovagare il suo senza una vera e propria destinazione.
Lazzaro è un ragazzo debole, umile e semplice ma in ogni incontro trasmette armonia e gioia di vivere. E anche amico dei lupi che seguono, favoleggiando, ogni suo passo.
Dal reale all’irreale, dal silenzio assordante al rumore dei treni, dal vuoto dei luoghi agli incroci di strade e di gente per male.
La prima parte del film resta da incorniciare, semplice, dismessa, nessuna retorica, limpida e agreste senza essere vana o studiata. Immediata e sincera. L’aia con le oche, le galline, la polvere, il pasto, il bere, la trebbiatura (osservare il marchio ‘Fabiani’ che dice dei tempi e del tempo non passato per loro), il luogo, i cancelli, gli interni, il fattore, il vestiario, il silenzio (reale e della musica assente) sono marchi che restano indelebili. Un contraltare vero tra mondo non conosciuto e un’ignoranza voluta, ma la schiettezza, l’immediatezza e il volto di Lazzaro aggiungono ad ogni cosa e inquadratura la memoria di una pellicola che parte da una storia italiana e da un racconto di sguardi personali provenienti da altri registi. Per primo Ermanno Olmi: si sente subito il profumo del cineasta bergamasco nella ripresa asciutta e povera della regista: come non pensare da subito al realismo senza contraddizioni de ‘L’albero degli zoccoli’. Modi, piccole carrellate, stop, fermi immagini, linguaggio e tipo di pellicola (proiezione ridotta a mo di sceneggiato televisivo degli anni che furono).
La seconda parte appare più favolistica quasi a completarne i personaggi: si ritrovano tutti o quasi con mansioni diverse e stessi problemi. Dalla campagna all’asfalto, dalla mezzadria di una contessa furba ai piccoli inganni, ruberie e alloggio di fortuna. Ecco dal paesaggio del ricatto (e fanno capolino anche i Taviani) prende il sopravvento il luogo dei fantasmi (‘Fantasmi a Roma’ di Antonio Pietrangeli del 1961) e del loro mondo misero è fasullo. Reale, sogno, fiaba, surreale e vita grama in ogni caso. Lazzaro figlio di un mondo inesistente e invisibile, ultimo e ignorante, amico senza circostanze. Lieve e leggerissimo ci entra dentro passando davanti a tutti anche dietro una fionda regalatagli dal suo Tancredi. Ecco il sangue sembra non fargli paura. Marcello (‘Dogman’ di M. Garrone) e Lazzaro sembrano conoscersi. Storie e diverse con alcune assonanze comuni.
Lunatico, longevo, leale e amico dei lupi; Assennato e amorfo, assonnato e attento; Zigzagando per campi, zimbello di tutti e un aiuto per tutti: Zitto e calmo, zotico e spento, il nostro felice si sdoppia ogni volta per dare una mano; Ariosamente statico e miserevolmente caparbio; Rustico, ignorante, stupido e anche altro ma Felice ridesta ogni stile non per buonismo o pietà ma per semplice umanità, rapporto senza condizioni, respiro di aria fresca e purezza di un santo, senza saperlo, di tutti i giorni. Che abita o può abitare a fianco a noi. Offuscato nei sogni e libero. Perdente ma sano, semplice ma sempre vivo. Un ragazzo, Lazzaro, da conservare: e il ‘fanciullino’ (‘pascoliano’) che non (t’)aspetti.
Cast: da assaporare con gli sguardi e le poche cose che sembrano dirci. Adriano Tardiolo (Lazzaro), alla sua primissima esperienza d’attore, buca lo schermo e rimane impresso, Luca Chikovani (Tancredi ragazzo) cantante e suo primo ruolo, e vanno ricordati tutti i volti muti e semplici che rendono vero questo film. Natalino Balasso (Nicola) ci accompagna nella ‘fiaba’ come un personaggio di Collodi.
Regia non compiaciuta, partecipe, viva e dentro i particolari..
Voto: 7½ (***½).