Un monaco certosino a un summit dei ministri dell’economia mondiale è un ossimoro. Entra in scena spaesato, abituato al silenzio della sua cella e alla sua vita meditativa (i certosini sono circa duecento al mondo; contemplazione e solitudine sono i cardini della loro regola), e con la “liturgia” dei suoi modi (e qualche personale vezzo) si contrappone da subito ai potenti e frivoli esponenti del G8, che oltre a lui hanno invitato una specie di Bono Vox e una scrittrice per bambini per alleggerire il peso dell’incontro.
Roberto Salus (in latino salvezza), interpretato da Toni Servillo, è stato invitato dal presidente dell’FMI Daniel Roché (Daniel Auteuil), perché è un religioso sui generis: “L’ortodossia mi è del tutto indifferente”, “Io sto dalla parte della pietà”, dice infatti. L’economista, forse in cerca di un’assoluzione , vuole che sia proprio lui a confessarlo e quando in seguito morirà in circostanze misteriose, il monaco sarà indagato come imputato numero uno e considerato custode di un qualche importantissimo segreto di Roché a cui tutti cercheranno di accedere. Nel summit in corso di fatto è in ballo una manovra che potrebbe avere effetti devastanti sui paesi più poveri della Terra e non tutti sono d’accordo sul da farsi, per questo la sparizione del deus ex machina a ridosso della votazione risulta piuttosto sospetta.
E’ un giallo (un po’ Dieci piccoli indiani) stravagante quello messo in scena da Roberto Andò, avvolto da un’aura metafisica emanata in parte dalla figura dell’enigmatico religioso, in parte da lente e riflessive inquadrature sui singoli personaggi e in parte dalla location asettica, un lussuoso resort a bordo di un lago tedesco che fa subitoYouth. Andò, senza sensi di colpa, strizza più volte l’occhio all’estetica di Sorrentino (con persino un uccello esotico simbolico), tanto che Salus diventa una sorta di Jep Gambardella ieratico alla presenza del quale gli altri, privati del loro condottiero mondano Roché, si aprono spontaneamente. Come se il suo linguaggio ermetico e il suo sguardo diretto esigessero implicitamente una confessione.
L’idea di fondo su cui si incardina il film non è molto dissimile a quella di Viva la libertà: inserire una variabile impazzita, portatrice sana di una dimensione etica dimenticata – perfino spirituale – nella stanza dei bottoni. E per lasciarle il tempo di agire e di accedere in profondità, Andò si prende i tempi di un racconto dilatato in cui mette a nudo gli automatismi di un sistema incapace di mettersi in discussione e accecato dalla presunzione di manovrare i fili del destino del mondo.
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Mi piace: L’entrata in scena di Servillo che sovverte gli schemi del mondo della politica. L’introduzione di una sorta di virus sano all’interno del palazzo del potere come avveniva in Viva la libertà.
Non mi piace: i tempi dilatati del racconto che smorzano le atmosfere da giallo del film.
Consigliato a chi: ama il cinema d’autore italiano alla Sorrentino e a chi vorrebbe che la politica recuperasse una dimensione etica.
VOTO: 3/5
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