Dopo un decennio votato al blockbuster d’esportazione (Hero, La foresta dei pugnali volanti), e prima di imbarcarsi in quella che si preannuncia come la produzione cinematografica più colossale della Cina con The Great Wall, Zhang Yimou torna al genere che lo ha reso celebre nel mondo negli anni ’90 (Ju Dou, Lanterne Rosse): il melodramma.
Lettere di uno sconosciuto, che la critica aveva apprezzato a Cannes, dove era stato presentato fuori concorso, è la storia intima di Lu Yanshi (Chen Daoming) e Feng Wanyu (Gong Li, che si fa nuovamente dirigere dal regista dopo aver esordito, grazie a lui, con Sorgo rosso nel 1987), sposi costretti alla separazione dalla Rivoluzione Culturale. Arrestato e mandato in un campo di lavoro Lu, professore, intellettuale e dissidente politico, fa ritorno a casa dopo diversi anni. Ad attenderlo c’è la figlia Den Den, che lo aveva denunciato la prima volta e che ora, viste crollare le sue ambizioni di ballerina a causa di quella parentela scomoda per il Partito, è impiegata in una fabbrica. Feng, invece, non lo riconosce, smarrita nella nuvola dell’improbabile amnesia selettiva in cui è caduta dopo il trauma dell’allontanamento, e strenuamente convinta che Lu stia lì lì per tornare.
Con un’apertura che ha il sapore del noir, bagnata dallo scrosciare della pioggia e illuminata da pochi tagli di luce, e un finale che, al contrario, sovrappone ai grigi dell’inizio i colori sfumati di una nevicata, Lettere di uno sconosciuto distilla lungo le due ore della sua durata un racconto d’amore tragico che, pur nell’assoluta leggibilità del testo, forse uno dei più accessibili del regista, non smette di commuovere e di emozionare. Superata e scaricata la tensione drammatica della prima parte, dove si predilige un inquadramento storico-sociale della vicenda, con una descrizione saliente delle conseguenze del maoismo sullo stile di vita e sulla condotta della popolazione cinese (la collettivizzazione forzata, la privazione di uno spazio intimo, morale e fisico, le pratiche punitive esemplari, la dissoluzione dei legami familiari e umani a favore di quelli politici), la seconda parte del film, scandita dal ritorno a casa di Lu, recinta lo spazio di interazione agli interni domestici della casa, che diventano luogo psicofisico e di memorie, dove Lu può tentare di riabilitare il proprio ricordo presso Feng.
La perfetta padronanza dei generi, con cui Zhang Yimou giunge, in questa seconda parte, al più classico dei melodrammi, con tutti gli elementi canonici che lo costituiscono, salva il film dal rischio di un mero attraversamento dei repertori narrativi, riuscendo a costruire, invece, un’impalcatura estetica solida, oltre che stilistica. Una volta inquadrato il contesto storico e politico, il regista infatti non si interroga più sulle origini dell’amnesia di Feng, lasciando allo spettatore di risolvere la natura di quel trauma, ma si concentra sulle possibilità terapeutiche con una riflessione sulla natura del ricordo e dell’immagine, incamminandosi, insieme a Lu, in un viaggio alla ricerca delle tracce su cui la memoria si fonda.
Disseminando lungo la quotidianità della moglie gli indizi che potrebbero attivare in lei il ricordo, Lu si affida a quel paradigma indiziario, che, in un crescendo di sollecitazioni emotive (e di lacrime), parte dall’immagine (le fotografie a cui Den Den, in un processo di damnatio memoriae, ha tagliato il volto del padre), passa per la musica e arriva alla parola (le lettere del titolo) per riabilitarne e ridefinirne l’identità.
Là dove il tempo ha lavorato nell’assenza, corrodendo la memoria di Feng, ora, nello spazio sospeso, immutabile e intimo della casa, quel tempo senza contenuto va riattivato, a costo di raccontare una bugia, di inventare una nuova storia, di narrare una biografia che è allo stesso tempo un compromesso. Nello sforzo estremo di superare l’abisso, l’amore di Lu per Feng, pronto a tutto, come nella migliore tradizione melodrammatica, si trasforma in vertigine. La vertigine della rovina, di cui le schegge e i frammenti si ricompongono in una ritrovata, ma tragica, quotidianità.
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Mi piace: la padronanza degli strumenti narrativi e stilistici, con cui il regista riesce a superare i cliché del genere. La delicatezza emotiva del racconto
Non mi piace: il rigore compositivo e spaziale, che a volte costringe gli attori a movimenti poco fluidi
Consigliato a chi: vuole vedere il ritorno di uno dei più grandi maestri del cinema orientale all’intimità domestica dei sentimenti, con un melò dalla tessitura perfetta
Voto: 4,5/5
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