Per un pubblico non visceralmente cinefilo o che non si ritrovi a frequentare assiduamente ambienti come i festival, Bruno Dumont può rappresentare un nome ignoto. Eppure si tratta di uno degli autori di punta, non solo del panorama francese, vantando la presenza dei suoi diversi film in tutte le più prestigiose vetrine festivaliere, diventando in particolare a Cannes un ospite stabile.
Il primo film a portare la sua firma e ad essere arrivato nelle sale italiane è stato proprio France, con protagonista Lea Seydoux, il suo ultimo lavoro che ha concorso per la Palma d’Oro. Difatti la sua opera più recente, L’Impero, ha fatto capolino solamente quest’anno (voci insistenti la davano per già pronta nel 2023, ricorrendo ai più disparati motivi per giustificare questo slittamento) durante il Festival di Berlino.
Fin dal trailer uscito è intuibile la motivazione dietro una certa ritrosia di festival e distributori, che magari in passato hanno permesso a Dumont di occupare le sale nostrane e non. Se l’elemento grottesco e parossistico non è mai stato celato dal regista, nemmeno nei suoi drammi più neri, in questo caso si subentra nel territorio della vera e propria parodia. L’autore stesso afferma più volte quanto l’idea di base sia una presa in giro non banale di uno dei franchise più iconici e redditizi della settima arte, ovvero Star Wars.
L’Impero segue pedissequamente i meccanismi e i procedimenti di tale operazione di traduzione: comprende il nucleo tematico del testo principale (la lotta tra Bene e Male), travisando tutti gli elementi iconici che gravitano attorno ad esso (le astronavi diventano chiese e palazzi, come la Reggia di Caserta, mentre gli “alieni” comunicano solo attraverso cacofonici suoni).
Il conflitto qui vede gli “0” e gli “1”, entrambi con lo scopo di pervadere gli umani rispettivamente con la loro malvagità e bontà d’animo. Il mezzo tramite il quale una delle due fazioni può raggiungere tale obiettivo risiede nel Margat, figlio di Jony (Brandon Vlieghe), destinato a diventare il nuovo sovrano delle forze oscure. Gli “1” decidono di inviare Jane (Anamaria Vartolomei) sulla Terra per rapire il bambino.
Tale scontro vede come scenario principale un’inconsueta Côte d’Opale, nella Francia settentrionale, in una comunità rurale e ai bordi della società moderna, costituita principalmente da pescatori. Tale scelta geografica peculiare consiste in un elemento ricorrente della filmografia di Dumont, in particolare nei suoi due esperimenti seriali, P’tit Quinquin e Coincoin et les Z’inhumains.
Dumont quindi ibrida le caratteristiche contenutistiche e formali della propria impronta registica con i topoi sci-fi odierni e non, ed è proprio da questa improbabile collisione di tempistiche dilatate, e episodi anticlimatici con il bagaglio di aspettative di cui si contorna l’epica fantascientifica, a generare un irresistibile assurdità alla quale è impossibile non arrendersi.
I ruoli tipici del genere ci sono tutti: da Jane, protagonista femminile combattivamente emancipata, fino a Beelzebub (con le sembianze mai così divertente Fabrice Luchini), signore del male sul modello del Palpatine di George Lucas. Ognuno di questi archetipi viene messo prontamente alla berlina, uscendo lungo il protrarsi dell’intreccio dai propri preimpostati comportamenti, abbandonandosi e svestendosi dei loro personaggi una volta entrati in contatto e abituati all’entropia terrestre.
Proprio questo è il sottotesto, neanche troppo celato, dietro L’Impero: l’impossibilità da parte della razionalità narrativa (le due fazioni non a caso costituiscono i due addendi del codice binario) di incasellare e governare la realtà sotto rigidi schemi.
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