Un racconto ambizioso, una storia che ha urgenza di farsi guardare, come denota in prima battuta il titolo monolitico, proprio di chi ha fretta di indirizzare il suo bersaglio. Non è scelta casuale, quella di un redivivo Montaldo, tornato dietro la macchina da presa, dopo tanto cinema di qualità, istintivamente dedito a storie di matrice documentaria, immerse nella storia, spesso lontana, ma con l’eco di una visione spesso politica dei diversi contemporanei. Questa volta il percorso si sofferma in presa diretta sul presente, sull’angoscioso declino di un gigante industriale che non è una fabbrica in sé, ma probabilmente l’intero impianto economico di quello che fu il Bel Paese. Un racconto sulla Crisi, dunque, volutamente tracciata con la maiuscola, perché metafora di quello che accade fuori, ma simbioticamente sposo del male di dentro. Come in un rimpallo a più strati, il crollo del sistema economico italiano e illusoriamente occidentale, compartecipa con la singola vicenda privata dell’azienda dalle nobili tradizioni familiari, e si approfonda, ancora più morboso, nel crollo intimo della relazione affettiva dell’ ingegner Ranieri, un sempre più caratterizzante Pierfrancesco Favino. La scelta è quella di non abusare sul fronte sociopolitico, semmai di accennarlo sullo sfondo dei capannoni industriali in disfacimento, quanto di far correre il filo del discorso nel riflesso degli occhi angosciati del protagonista. O dei protagonisti. Perché meritoria è anche la prova della moglie perplessa, una Crescentini che nel tempo acquisisce la sempre più perentoria tipizzazione di una femminilità molto attuale, ma anche storicamente e iconicamente adulta. Il film non si specchia né si autocompiace nel consueto sindacalismo reportage della Grande Crisi, e soprattutto nella seconda fase, si evolve con naturalezza, cucendosi addosso le fratture emotive dei coniugi Ranieri, e lasciando che sia quella la storia da pedinare con lo sguardo. Lo fa con molta veridicità, senza risultare un banale circuito di gelosia, perché appoggiato sul giusto equilibrio tra mestiere cinematografico e concessioni alla naturalezza di una serie di personaggi di contorno, mai prosaici, semmai quasi macchiette inconsapevoli. Robusta la dotazione tecnica dell’opera, probabilmente impreziosita in maniera decisiva dall’impatto fonico del malizioso commento sonoro di Morricone figlio e da una fotografia memorabile. La Torino fortemente torinese, in un grigio-verde livido ed insistito, quasi da graphic-novel, tinteggiata da Arnaldo Catinari, è infatti, un personaggio a sé stante, e dona ombre e consistenza ai volti e ai luoghi, tutti staticamente proni al declino che li mina, dall’alto verso il basso.
Il punto focale è lo sgretolamento di tutto ciò che circonda la vita di Ranieri, il tranciamento progressivo dei tiranti che tenevano in piedi il pubblico e il privato della sua storia di successo. Favino ha lineamenti e mimica giusti per un ritratto sospeso tra il martire e il carnefice, braccato da una spirale discendente, che andava raccontata con veridicità. Il che sfocia inevitabile nel coinvolgimento emozionale dello spettatore, fino alla deriva noir e senza redenzione del finale, che non poteva essere nulla di diverso da quanto premesso e promesso. Anche perché Montaldo aveva bene a mente che il crollo che ci frastorna è un’epopea sconosciuta, senza santi, né eroi.