Se c’è una qualità di cui il cinema di Hirokazu Kore-eda non ha mai fatto difetto è la capacità di questo regista giapponese di mettere la sua visione al servizio delle storie, con un pudore e una grazia che sono una grande lezione di economia poetica e di sguardo. Monster, il suo nuovo film presentato in Concorso allo scorso 76esimo Festival di Cannes e nelle sale italiane dal 22 agosto col titolo L’innocenza, non fa eccezione: è un lungometraggio koreediano fino al midollo, capace di sintetizzare benissimo lo stile del cineasta e contemporaneamente di elevare a potenza le sfide che il suo cinema da sempre si sobbarca.
Al centro della storia c’è Minato (Soya Kurokawa), che frequenta il quinto anno delle elementari e ha una madre single (Sakura Ando) molto premurosa e altrettanto apprensiva, che l’ha cresciuto da sola senza l’aiuto del marito. Un giorno, quando il bambino torna da scuola, la donna si accorge che qualcosa non va e intuisce che suo figlio possa essere stato maltrattato da un insegnante. Il ragazzino, da sempre molto sensibile («Se a un uomo viene impiantato il cervello di un maiale è ancora un uomo o è un mostro?», chiede), pare aver sviluppato una tendenza autolesionista, ma è solo la punta dell’iceberg di una parabola che si rivelerà via via più stratificata di come le apparenze possano suggerire.
Per il suo ritorno in Giappone, dopo due trasferte consecutive, in Francia per Le verità e in Corea del Sud per Le buone stelle – Broker, Kore-Eda sceglie infatti una struttura narrativamente composita, alla Rashōmon di Akira Kurosawa, in cui il punto di vista di ogni personaggio (vedremo nel film anche quello dell’insegnante, oltre a quello dei bambini) aggiunge dei tasselli in più al racconto, lo chiarisce e lo amplifica, trovando via via nuovi ribaltamenti, sottigliezze, pieghe psicologiche e morali più profonde e sfaccettate.
Un lavoro che necessita di uno sforzo di scrittura enorme, per la minuzia con cui tutto è cesellato, eppure Monster fa sembrare ogni cosa estremamente naturale, con un minimalismo sentimentale carico di sostanza che è proprio il tratto di Kore-eda: un regista innamorato degli esseri umani e proprio per questo in grado come pochi altri di mostrarne i lati più dolorosi, imperfetti e tragici, con una delicatezza che oscilla puntualmente dal lancinante allo struggente.
Per lui, che ha sempre portato in scena la famiglia da angolature spiazzanti e originali, qui il discorso si allarga moltissimo, in maniera al contempo esplosiva e infinitesimale, andando a indagare i molti inciampi e le fatali asimmetrie che derivano da una comunicazione irrisolta e faticosa tra gli adulti e i ragazzini. Parla di tante cose L’innocenza, eppure Kore-eda sembra disinteressato alla radiografia dei “mali” della contemporaneità (che pure sono evocati, sfiorati), preferendo mettersi in ascolto del suo cuore di narratore e delle istanze, anche le più scivolose da maneggiare, dei suoi personaggi.
Anche di fronte alla moltiplicazione forsennata delle prospettive, l’approccio dell’autore rimane incredibilmente lo stesso e la pulizia formale pressoché assoluta. Ne L’innocenza la tenerezza pare non soccombere e non essere negoziabile al cospetto di niente e nessuno, come fosse l’ultimo baluardo con cui continuare a guardare il mondo e dispiegare la disumanizzazione di un presente avarissimo di risposte facili e confortanti. Senza rinunciare, tuttavia, letteralmente a tutta l’umanità e il tatto che è possibile mettere dentro un storia, anche se le stoccate alla rigidità e remissività della cultura giapponese non mancano di certo.
Il meccanismo narratologico alla base del film è a dir poco articolato, eppure mai complicato o macchinoso. La limpidezza di Kore-eda non rende mai la vicenda di Monster una matassa di ragioni intricate e pulsioni irrazionali, l’esperienza semmai è più simile a vedere un gomitolo srotolarsi con dolcezza davanti ali occhi di chi guarda. In più, siamo alle prese come al solito con un regista purissimo, che riesce a trasformare anche i dettagli più irrilevanti (una scarpa tolta sull’entrata di casa, l’inquadratura di una diga, lo skyline di una città) in attimi di grande cinema, come se tutto ciò che si sceglie di ritrarre – non importa se un incendio o il passaggio di un treno – fosse da investire di una forma estatica di poesia superiore.
Un gran ruolo nel film ha anche la colonna sonora del compianto maestro Ryūichi Sakamoto (al quale il film è dedicato), assolutamente straordinaria quando non addirittura decisiva nel puntellare le immagini raccordandosi all’intimità tipica di Kore-eda, nel traghettare verso territori sempre più sotterranei e inconsci la catarsi dello spettatore e nel far esplodere in tantissimi momenti un’inevitabile, silenziosa e duratura commozione.
Foto: MONSTER de Kore-eda © DR
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