Lion non è un film che cerca scorciatoie sentimentali o svolte innaffiate da lacrime facili. È una storia vera, popolata da persone vere, che hanno camminato sulle polveri di una sofferenza vera e compiuto corse attraverso mondi vari e veri. Di verità quindi ce n’è molta, portata di peso e con coraggio ruggente in ogni scena, e c’è molta dignità anche, impastata nei piedi galoppanti di Saruu, il bambino perso in un notturno indiano che “solleva” oggetti e sorrisi. Sono qualità contenutistiche importanti per cartografare il percorso di una vita sempre slogata ma ardimentosa, frustata da un tempismo sadico e riportata indietro dalla sponda del ricordo. È lo stesso ricordo che respira a fiato largo nei campi lunghi, abbracci paesaggistici da cui si intuiscono i tratti più umani della natura, e poi si fa stretto tra gli occhi di chi vive il tutto in prima persona, anche senza unità di luogo (prova leonina di Dev Patel). Le cicatrici firmate dal dolore per la perdita degli affetti infatti impigliano la quotidianità “privilegiata” in ossessioni intime e ombrose, incollate a oggetti che (si direbbe con shock proustiani) schiaffano via i compromessi di una vita che vorrebbe essere senza passato. Così, mentre vengono impostate le coordinate emotive, gli eventi crescono robusti perché sono raccontati in modo frontale e onesto. E se può sembrare comodo allacciare un dramma famigliare alla meccanica della commozione, non è per niente scontata l’intuitiva metafora geografica: le forme della terra e la sua vastità fuori portata allineate alle dinamiche che intercorrono tra madre e figlio, tra fratello e fratello, tra uomo e natura.
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