Alain (Guillaume Canet), un editore parigino di successo che sgomita per adattarsi alla rivoluzione digitale che sta cambiando alle fondamenta il suo lavoro, ha grosse perplessità sul nuovo manoscritto di Léonard (Vincent Macaigne), uno dei suoi autori di lunga data, fedelmente legato alla sua casa editrice. Selena (Juliette Binoche), compagna di Alain, ha da sei anni una relazione extraconiugale proprio con Leonard…
Lasciatisi alle spalle i due film con Kristen Stewart, Sils Maria e Personal Shopper (entrambi splendidi e spiazzanti, e originalissimi), il celebrato regista francese Olivier Assayas, tra i massimi rappresentanti del cinema transalpino di oggi, si concede una rigenerante e gustosa vacanza premio ne Il gioco delle coppie, da lui scritto e diretto, che ruota però intorno alle stesse ossessioni: i media digitali e la loro compresenza di onnipresenza ed evanescenza, di interrogativi e fantasmi, pronti a spazzare via la concretezza delle nostre vite.
Il film non ha dunque le radicali premesse teoriche e intellettuali dell’ultima parte della carriera di Assayas (tutt’altro che disattese), ma è una commedia in piena regola: briosa e deliziosa, feroce e intelligente, divertente e spassosa. Qua e là il regista si dimostra senz’altro indulgente, soprattutto con la borghesia intellettuale e radical chic che mette in scena, ma il suo sguardo non è mai spocchioso, non erige piedistalli e non è mai giudicante, valorizza al meglio i punti di vista di tutte le parti in causa.
Questo rispecchiamento di prospettive e punti di vista tra il regista e le sue creature, come nell’autofiction letteraria che investe il personaggio di Vincent Macaigne (che attore: irresistibile) permette infatti ad Assayas di essere alternativamente spietato e bonario, intimo e caloroso, accorato e distante. Il valzer di coppie è un dispositivo altrove spremuto all’inverosimile, ma il tocco dell’autore, colto e profondo, oltre che auto-ironico, conferisce al film originalità e un passo allegro, sfaccettato, tutto suo (andante con brio, si direbbe al cospetto di un pentagramma).
Assayas nasce come critico cinematografico per i Cahiers du cinéma, bibbia della cinefilia mondiale, e come sceneggiatore per altri registi. In questo film, in un rigenerante ritorno alle origini che sa di boccata d’aria fresca a pieni polmoni, il regista di L’eau froide ribadisce il primato del copione e della partitura, fa un passo indietro e si mette al servizio dei suoi interpreti. Dando l’idea di godersi appieno e con somma, sorniona malizia un andirivieni perfettamente ritmato di frecciate, momenti delicati, gente che si guarda l’ombelico e coccola i propri limiti autoreferenziali, non rinunciando per questo alla propria irriducibile integrità.
La cosa in assoluto più divertente del film è senz’altro la battuta dedicata a Il nastro bianco di Michael Haneke, celebrato regista austriaco, indicatore emblematico e molto significativo per un film che sa dire cose serissime col sorriso sulle labbra e con un impagabile, anti-retorico candore. Senza prendersi sul serio e rimandando continuamente il punto finale di una ronda tragicomica capace di valorizzare e insieme di schernire le umane debolezze.
Alla ricerca di un finale possibile, di un appagamento amoroso fatalmente rimandato. E dunque puntualmente ammaliante, perfino oltre lo scorrere dei titoli di coda.
© RIPRODUZIONE RISERVATA