Dopo la visione di “Lo chiamavano Jeeg Robot” a rimanere in testa sono le canzoni italiane anni ’80 e la tenerezza della protagonista femminile, personificazione di un’innocenza destinata a scontrarsi violentemente con una Roma molto vicina a quella dipinta da Sollima in “Suburra”.
Perché nell’ultimo anno il cinema italiano ha visto nascere nuovi autori, con idee e stili che devono molto alle produzioni d’oltreoceano. Sarebbe un’ingiusta riduzione definire il film di Mainetti il primo film supereroistico italiano veramente riuscito (dimenticandoci l’esperimento di Salvatores). “Lo chiamavano Jeeg Robot” si distacca infatti dal genere a cui appartiene apparentemente, ritraendo una parte degradante della società in cui viviamo senza edulcorazioni o filtri. Mainetti non cade nell’errore di registi molto più esperti, come Sam Mendes con “Spectre”, ovvero di ridurre la città eterna ad un’anonima cartolina. La sua Roma è sporca, decadente e alienante. Caratteristiche che influiscono direttamente sui personaggi.
Personaggi costruiti alla perfezione. Il protagonista interpretato da Claudio Santamaria è marcio quanto il quartiere di periferia in cui ha sempre vissuto, senza alcuna intenzione e possibilità di redenzione sociale. La rivelazione Ilenia Pastorelli interpreta invece la protagonista femminile, tenera incarnazione di un’ingenuità infantile e nostalgica che è a sua volta la vera essenza del film stesso.
Ma a rimanere impressa è l’interpretazione di Luca Marinelli. Lo Zingaro è sicuramente il personaggio più potente del film, protagonista quanto l’eroe stesso, lunatico, folle e divertente. Un villain atipico che nessun film americano di genere ci aveva ancora proposto, causa l’essere vincolati ad una major.
È probabilmente su questo punto che “Lo chiamavano Jeeg Robot” vince la scommessa: si tratta di un film italiano indipendente e di genere, ma che non rinuncia alla visione del suo autore. Se inizialmente stupisce la qualità tecnica pari alle grandi produzioni già sopracitate, colpisce come Mainetti riesca ad unire un brutale verismo sociale ad una dichiarazione d’amore nostalgica agli anni ’80.
Il risultato è quindi un piccolo grande film. Dargli solamente il merito di aver dimostrato che in Italia sia possibile fare un certo tipo di cinema sarebbe superficiale ed offensivo. Ci troviamo davanti ad uno dei migliori film italiani degli ultimi anni, senza dubbio rivoluzionario, ma anche divertente ed impegnativo. Tenero e crudele.