Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato: la recensione di Gabriele Ferrari
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Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato: la recensione di Gabriele Ferrari

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato: la recensione di Gabriele Ferrari

Doveva essere un trionfo. E invece si rivela un mezzo disastro. A dieci anni da una saga che ha fruttato a Peter Jackson 17 Oscar e tre miliardi di dollari di incassi, Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato doveva segnare l’inizio di una nuova avventura, un ritorno a terre lontane ma vive e vivide nella memoria dei fan, che poteva (doveva) far conoscere a tutto il mondo la storia di Bilbo Baggins, uomo qualunque che le circostanze rendono eroe; e quella dell’Anello, quell'”oggetto così piccolo” che Tolkien introdusse quasi distrattamente nelle vicende del suo primo romanzo e che si scoprirà poi decisivo per le sorti della Terra di Mezzo. Lo Hobbit doveva essere una fiaba, un viaggio di formazione, una storia delicata, ironica e commovente. Quello che ci troviamo tra le mani, invece, è la prima, trascinatissima parte di un lungo prequel alle vicende narrate nel Signore degli Anelli, a cui è forzosamente legato da alcune inspiegabili modifiche e aggiunte volute da Jackson; sommate a questo il fatto che la scommessa dei chiacchieratissimi 48fps è clamorosamente persa e otterrete un imprevedibile (e per questo ancora più doloroso) flop.

E dire che gli ingredienti sembravano quelli giusti. Bilbo, che nel Signore degli Anelli era poco più che una comparsa e un meccanismo per dare il via alla storia, qui assume il ruolo di protagonista, ed era difficile pensare a un hobbit migliore di Martin Freeman per vestirne i panni e far dimenticare gli occhi sempre sgranati di Frodo/Elijah Wood; e quando lo vediamo comodamente seduto sulla soglia di casa Baggins, pipa in bocca e sguardo perso nei suoi sogni, è un attimo perché scatti la scintilla: la prospettiva di passare una decina di ore (spalmate su tre film) in sua compagnia riempie il cuore. Peccato che – e qui sta il primo problema strutturale della nuova saga – questo piccolo momento di magia arrivi quando il film è già cominciato da almeno venti minuti. Prima, una lunga esposizione storica che ricalca quella che apriva La compagnia dell’anello, che sposta immediatamente il tono dalla favola rurale all’epica guerriera: si capisce subito che lo scopo di Jackson è costruire un raccordo potente con la sua saga principale, infondendo quella che dovrebbe essere una storia per bambini e ragazzi di uno spirito violento e brutale che suona fuori posto se affiancato ai momenti più comici – Nani che ruttano, battutacce sui funghi allucinogeni, elfi vegetariani, Radagast il Bruno (infilato a forza, e non è l’unico) che viaggia a bordo di una slitta trainata da conigli.

È la distonia tra queste due anime il difetto principale di Lo Hobbit: Smaug, il drago che ha usurpato il regno dei Nani, diventa un emissario dell'”astro nascente del male” Sauron, l’orco albino Azog (anch’egli inventato di sana pianta per il film) segno che le creature del Male stanno tornando, Saruman e Galadriel (ancora Christopher Lee e Cate Blanchett, ovviamente) figure quasi politiche; dall’altro lato dello spettro, i tredici nani guerrieri sono macchiette da cinepanettone, che urlano, scorreggiano, ridono sguaiatamente (nonostante la tragedia che li ha colpiti, la nostalgia di casa, la vita da reietti che conducono). Si salva Thorin (Richard Armitage), capo della compagnia, unica vera figura eroica e alla quale è donato un certo spessore. È troppo poco, soprattutto a fronte di una narrazione lenta ed eccessivamente fissata su dettagli che sembrano inseriti più per allungare artificialmente la durata dell’opera che per amore di approfondimento.

La scrittura, d’altra parte, era il vero (seppur minuscolo) punto debole anche del Signore degli Anelli. Che però aveva dalla sua una coerenza stilistica e tematica che si rifletteva anche, soprattutto, nello spettacolo visivo messo in piedi da Jackson. Qui, invece, con l’eccezione delle solite spettacolari panoramiche a volo d’uccello sulla Nuova Zelanda Terra di Mezzo e di un paio di sequenze di combattimento molto ben girate, anche l’impatto dell’ambientazione è diminuito e quasi ridicolizzato. La colpa, e qui arriviamo finalmente a parlare dell’aspetto più discusso e discutibile, è del 3D e dei famigerati 48fps. Per poter amplificare l’effetto di un framerate raddoppiato, Jackson illumina a giorno ogni set e ogni ripresa in esterni: il risultato è un 3D luminoso e assolutamente perfetto, ma anche una nitidezza eccessiva dell’immagine. A beneficiarne sono solo le scene più movimentate, quando il panning della camera, privo di qualsiasi sfocatura, esalta ogni dettaglio. Appena il ritmo scende, però, le immagini cristalline “donano” al film il look di una fiction tv: la prima volta che la Contea viene inquadrata in tutto il suo splendore, con il sole che bacia i campi verdeggianti, si ha la forte impressione di star guardando una puntata dei Teletubbies. Per non parlare delle scene notturne e/o di pioggia, sempre illuminate a giorno: la sensazione di essere sul set mentre Jackson girava è troppo forte, e decisamente sbagliata.

Cosa si salva, dunque, in queste quasi tre ore che potevano e dovevano essere la metà? Facile: tutti quei momenti che anche nel romanzo preludevano al tono più grave ed epico del Signore degli Anelli. L’arrivo del drago a devastare la città dei Nani. L’incontro con Gollum (come sempre motion-catturato da Andy Serkis), quello sì in grado di essere autenticamente inquietante e profondamente toccante nel giro di pochi, intensi minuti. Il look della cittadella di Dol Guldur, sede del Negromante-futuro-Sauron: decadente e in rovina, avrà molto da dire a livello visivo quando Jackson racconterà estesamente (che vi piaccia o meno – a chi scrive, fan viscerale di Tolkien, l’idea non va proprio giù) la battaglia tra gli Istari e Sauron. La colonna sonora di Howard Shore, che tra citazioni della vecchia saga e una splendida canzone cantata dai Nani centra in pieno il bersaglio.

Peccato solo per tutto il resto: l’impressione, questa volta, è che Jackson abbia toppato in pieno il tono, non capendo (o ignorando) lo spirito di Lo Hobbit e trasformandolo da arguto e brillante romanzo per ragazzi in baracconata un po’ sciocca con improbabili afflati epici. Resta nella memoria un momento in particolare, piccolo ma a nostro parere significativo: l’incontro di Bilbo con i Troll, che nel romanzo si risolveva grazie alla scaltrezza verbale di Gandalf e qui diventa una rissa tra tredici nani e tre gigantesche creature in CGI. Che, e lo diciamo per non essere accusati di essere solo dei nerd infuriati, non avrebbe funzionato in nessun contesto: il difetto più grosso di Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato non è di essere una pessima trasposizione di un grandissimo libro, ma di essere solo un mediocre film fantasy che aspira alla grandezza e cade invece con un tonfo fragoroso. Speriamo che, con l’avvicinarsi della Montagna Solitaria, Jackson si rimetta in riga.

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Mi piace
Il miglior Bilbo possibile. Il ritorno su grande schermo di Gollum è da applausi a scena aperta. Alcune sequenze assolutamente spettacolari. Arrivati i titoli di coda si fa pressante la necessità di rileggere il romanzo.

Non mi piace
La scrittura completamente fuori luogo. La confusione tra il tono epico e quello ironico che danno origine a un gran pasticcio. Regia più anonima del previsto. I 48fps: interessante esperimento, non ancora pronto però per il debutto nel mondo.

Consigliato a chi
Ha bisogno fisico di Tolkien al cinema.

Voto: 2/5

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