Lo sguardo di Satana – Carrie è l’ultimo di una serie di remake di classici anni Ottanta, ripuliti e corretti per poter serenamente rivendere a un pubblico nuovo pellicole altrimenti indigeribili a un sedicenne di oggi. La casa di Sam Raimi è troppo camp e amatoriale per chi è abituato alla CGI di Avatar? Lo ripuliamo e lo svuotiamo della sua carica sovversiva, trasformandolo in uno splatterone a uso e consumo delle masse. Dredd suona datato e troppo goffo per chi è cresciuto a pane e Avengers? Trasformiamolo in un action tutto coreografie. Atto di forza troppo freak e intellettuale in un mondo in cui lo Star Trek di J.J. Abrams fa i miliardi? Lo si banalizza e ci si aggiunge Colin Farrell. E Carrie di Brian De Palma? Troppo estetizzato e sperimentale, troppo spezzettato e (volutamente) confuso, troppo ambiguo: Kimberly Peirce, lontana dalla scene dal 2008, trasforma quindi il romanzo di Stephen King in un teen drama senza mordente, popolato di facce perfette e inespressive e svuotato di ogni tensione. È un’operazione che ricalca pedissequamente quel che Kevin Williamson fece allo slasher quando produsse Scream: sfumato l’effetto-novità che fece del film di Wes Craven un culto istantaneo, rimaniamo con in mano un pugno di mosche e la convinzione che la futura star Chloë Moretz si meriti un veicolo migliore per catapultarsi nel firmamento.
Se conoscete l’originale di De Palma siete già a cavallo: le uniche novità, in questa sorta di “versione per chi non ha voglia di impegnarsi”, sono la sequenza d’apertura – Margaret White (Julianne Moore) che partorisce Carrie (la Moretz, ovviamente), prova a ucciderla in quanto figlia del peccato e viene fermata dai poteri psichici della neonata – e un finale posticcio, francamente ridicolo e copiato da Alien. Il resto ricalca pedissequamente l’opera a cui si ispira: Carrie è un’emarginata asociale che vive con una madre religiosa ai limiti (oltre) del fanatismo, la quale ama mutilarsi di nascosto e punire la figlia per i suoi peccati chiudendola nel sottoscala (Carrie Potter?). A scuola le cose non vanno meglio: vittima di bullismo da parte delle compagne di classe (spiccano Portia Doubleday e Gabriella Wilde, bellissime e un po’ sceme), Carrie respinge anche l’unico gesto di gentilezza che le viene fatto, il famigerato invito al ballo di fine anno da parte del bello della scuola (e capitano della squadra di lacrosse…) Tommy (Ansel Elgort). Il desiderio di essere normale e di ribellarsi all’educazione impostale dalla madre, unite alla neonata consapevolezza dei suoi poteri telecinetici, convincono alla fine Carrie ad accettare la galanteria di Tommy. Quel che accade al ballo in questione è ormai storia, e se siete tra quelli che non conoscono la vicenda non vi rovineremo la sorpresa; vi bastino le parole “bagno di sangue”.
Fin qui andrebbe tutto bene, in fondo il romanzo di King non racconta nulla di diverso e resta ancora oggi la più imperscrutabile delle sue opere, apparentemente conservatrice e retriva, in realtà quasi virulenta nel suo attaccare chiunque, dalla madre fanatica di Carrie alle sue fatue compagne di classe. Il problema, quindi, non sta su carta ma nella realizzazione: il Carrie di Peirce è girato come una puntata di Beverly Hills 90210, ha la stessa finezza nel proporre temi e situazioni (non esiste scena anche solo potenzialmente equivocabile che non venga preventivamente spiegata da qualcuno dei personaggi), le stesse facce perfette, le stesse luci artificiali e la stessa fantasia nel comporre inquadrature e muovere la macchina. Non è bello dover sempre fare confronti con l’originale, ma dove Sissy Spacek, pur staccandosi dal paradigma della “cicciottella brufolosa” descritto da King, riusciva comunque a inquietare grazie al fisico scheletrico e allo sguardo da indemoniata, la Moretz riesce solo a risultare adorabile, anche quando, come dire, perde la pazienza – né la aiuta la sua bellezza aggressiva, difficile da nascondere sotto anche sotto una felpa con cappuccio.
È tutto semplificato: le bionde sono angeliche e le more sono cattive, la madre (Julianne Moore è in costante overacting) è una folle senza speranza, il bel Tommy destinato a una brutta fine dal momento in cui approccia Carrie. E poi: siamo nel 2013 e non negli anni Settanta e lo scopriamo perché le compagne di Carrie la umiliano pubblicando un suo video su Youtube (salvo poi dimenticarsi l’esistenza del cellulare quando questo potrebbe salvare la vita di decine di persone); il dono di Carrie non è il marchio del demonio ma un normale superpotere e se lo sappiamo è perché la stessa Carrie ne scopre la natura navigando su Internet; qualsiasi ragazza è potenzialmente bellissima se vestita bene. È tutto messo sul tavolo con sì poca finezza da cancellare qualsiasi coinvolgimento emotivo e sgonfiare anche le scene decisive (come il confronto finale tra madre e figlia) di ogni tensione. Più che un film, o l’adattamento di un romanzo, Lo sguardo di Satana – Carrie è un bignami dell’originale, sfrondato di spine e scomodi spigoli e graziosamente confezionato per conquistare un pubblico a cui sangue e violenza piacciono, certo, ma non sia mai che siano accompagnati da disgusto, disagio o terrore. Horror anestetizzato che assomiglia più alla origin story di una supereroina, non oggettivamente brutto ma piuttosto inutile; quantomeno, se non lo si prende troppo sul serio, due risate le strappa.
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Mi piace
Se non lo si approccia come un horror ma come un teen drama con superpoteri in stile Heroes o Misfits, il film tutto sommato funziona.
Non mi piace
Chloë Moretz è fuori parte, Julianne Moore esagera, il cast di supporto è anonimo e la regia dimenticabile.
Consigliato a chi
È incuriosito dalla storia ma non conosce l’originale e non vuole rischiare di rimanerne traumatizzato.
Voto: 2/5
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