Locke: la recensione di loland10
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Locke: la recensione di loland10

Locke: la recensione di loland10

“Locke” (id., 2013) è il secondo lungometraggio del regista inglese Steven Knight di Marlnorough.
Quando il minimalismo raggiunge epigoni e strutture narrative di questo livello verrebbe da pensare a pellicole di alto rango, vaglia intrinseca corroborante e fasti marmorei di frasi e riprese ma, in realtà, ci troviamo di fronte ad un film (per chi scrive ancora di più si può considerare un film a ritroso nel tempo considerato utile per la ripresa continua che non c’è) poco incisivo nella sua lettura, corposamente asimmetrico, alquanto generico sui dialoghi e, per dirla tutta, giocato su fantasmi che s’alzano in fretta ma restano in un limbo misero, leggero e poco fluttuante nel cuore ‘immagine’ dello spettatore.
Ciò che scuote e abbaglia al primo apparire è solo un attimo e dopo la foga di telefonate, incroci, voci in attesa e buio autostradale, tutto ristagna o quasi in atteggiamenti e distorsioni mentali in attesa di essere (quasi) verificate e pleonasticamente aiutate da interlocutori invisibili nei corpi (solo qualche figura approssimata dentro il nucleo famigliare). Di altri non sappiamo nulla, solo voci e sensazioni distorte di una vita in un notturno pieno di ombre spalmate. Il lavoro e la famiglia litigano sempre non per altro che il terzo incomodo è l’itinerario di andata di Locke (una donna è in ospedale e sta per partire è l’inciampo -gradito o no- di un uomo alquanto sicuro che diventa nervoso interiormente) e semmai da vedere se c’è un ritorno mentre alla fine una freccia a destra mentre l’auto gira a sinistra. Dopo un’ultima telefonata, l’uscita dall’autostrada, uno stop improvviso e una decisione. Ma quale da prendere? E mentre l’auto scompare nel buio (tra luci notturne e traffico di uomini nascosti) non conosciamo sogni e speranze; né tanto meno sappiamo l’ultima direzione di Locke che si perde (frammisto a colori assonnati tra voci magnetizzate e vita da aspettare) tra il panorama di una città alleggerita e un’oscurità accecante. Così la camera si alza e il silenzio telefonico annienta ogni gusto di vera soddisfazione. E i titoli di coda allungano il buio finale allo spettatore.
Dentro un abitacolo della sua autovettura si snodano le voci e gli interlocutori della vita (in corsa) di Locke lungo un’autostrada notturna dove s’annida la variabilità umana nascosta e ogni pensiero e suggestione s’allargano nel misterioso sorpasso di ciascun uomo a se stesso mentre luci artificiali e ombre di fantasmi inceneriti dalla voglia di fuggire arieggiano come idiomi di moderne locuzioni sfinite e oramai prive di (vero) significato. Il motore, il display, il fuori onda, la forma, il plastico e le voci intermittenti che s’alzano nel chiuso di una vettura che vuole arrivare. Da alta velocità il viaggio abbassa ogni pretesa per arrivare ad un distensivo e leggero percorso (da oltre ottanta si arriva a quaranta) per poi fermarsi in isolamento e ripartire per arrivare. Verso il nuovo figlio o verso un silenzio che non si vede. E la vita che scorre come un fiume di parole inutili mentre il lavoro progettuale (uno scarico di tonnellate di cemento arricchisce la mattina dopo l’orgoglio di un uomo professionista fino al midollo) si deve fare ad ogni costo e chi sa se la nuova vita vuole saperlo. Forse no. Come una donna d’incontro per un atto d’amore che sfugge ad ogni pensiero di relazione. E il pianto corporeo della moglie (come se si sentisse lo scrosciare delle lacrime) che alla notizia inveisce, schermisce, prende a schiaffi (dal telefono sicuramente che mai vediamo) e rimane sola in casa (che non sappiamo come è composta) mentre il figlio guarda la partita (che voglia di vederla col padre Ivan) e il giocatore scarso (il perdente di turno) fa una rete che non t’aspetti mai. La voce del figlio rimane lì impressa nel displsay dell’auto mentre un sensore potrebbe far leva sulle lenzuola dove si nasconde (isolato e solo) un figlio che ancora non ha visto suo padre in una serata che si prospettava fuori dall’ordinario. La cena pronta, il cibo preferito, una birra, la partita e il proprio figlio accanto a sua moglie. Ma per Ivan Locke il tempo è finito e la stagione degli amori persi si è trasformata in una galleria sottovuoto piena di frasi inutili e di parole al buio per arrivare ad un ospedale. L’ospedale di una nascita mentre sta morendo una famiglia, sta perdendo il proprio figlio e del lavoro ostinatamente inciampa per essere licenziato in via autostradale. Una sera e un buio da incubi.
La psicologia si alza presto ma i dialoghi e le frammentazioni telefoniche lasciano poco spazio alla tensione e alla fantasia tetra dello spettatore. Tutto arriva di getto con scompiglio poco ritmato in un susseguirsi di notizie e di voci poco ardimentose e concitanti per invogliare un finale (poco propenso) alla drammaturgia. Una scrittura più ricercata avrebbe dato il vero gusto ad una pellicola in ‘presa diretta’ che dura poco più di ottanta minuti e ricorda (con grazia) che lo spettatore può stancarsi per una seconda volta (semmai da rivedere).
‘Traffico scorrevole’ ripete spesso Locke quasi cronometrando i tempi di arrivo (per il film e per un luogo che non si vede) ma la storia appare accatastata e socialmente troppo in calo. Ci si aspetta qualcosa? Ma il qualcosa non si vede mai. E il luogo delle parole appare semplice (intelligente) virtuosismo attoriale.
Tom Hardy appare bravo e convincente ma certo essere in prima fila per tutta la durata ne avrebbe guadagnato la convinzione con una scittura più precisa e strutturata.
Voto: 7.

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