Verrà stroncato perché retorico, militarista e filoamericano: è scritto nel suo DNA, è scontato, è il rischio che si corre quando si gira un film che racconta la storia (vera) di un gruppo di soldati americani in Afghanistan a caccia di terroristi, che rimangono prima intrappolati tra i monti del distretto di Pech, poi attaccati da un gruppo di talebani cattivi e infine salvati da un villaggio di pastori di buon cuore. Lo sapeva Peter Berg, lo sapevano i protagonisti (Mark Wahlberg, Ben Foster, Emile Hirsch, Taylor Kitsch), lo sa anche il pubblico che andrà in sala: Lone Survivor è una nuova (ennesima?) celebrazione dell’eroismo e dello spirito di sacrificio dell’esercito americano, è un film di yankee fatto da yankee e il cui target sono gli yankee, è quasi propaganda. A voi decidere se è un problema, un plus, un dettaglio secondario.
La nostra opinione è: scegliete la terza opzione. È impossibile girare uno war movie senza fare, in un modo o nell’altro, politica – ed è anche disonesto premiare pregiudizialmente tutti i film di genere che sulla guerra fanno critica e bocciare invece quelli con un’altra agenda. E in più: più che celebrare il conflitto e la sua bellezza (Berg l’aveva già fatto, a modo suo, in Battleship), Lone Survivor è una pellicola sul maschio cameratismo e sull’importanza di avere a fianco, quando fischiano i proiettili ed esplodono le granate, qualcuno di cui fidarsi. Wahlberg, Foster, Hirsch, Kitsch: questa la squadra e il cuore dell’operazione – realmente avvenuta, e infatti la forza del film è anche quella di essere una storia vera – Red Wings, infiltrazione ad alto rischio in un villaggio di talebani a caccia del terrorista Ahmad Shah. Il resto fa da contorno: Eric Bana nei panni del luogotenente che coordina (prova a) le operazioni dalla base, i grigi politici senza volto che derubricano il dramma ad accidente bellico, è tutto al servizio di quanto accade sui pendii scoscesi dell’Afghanistan, dove va tutto male e da cui solo uno (non è uno spoiler, lo dice anche il titolo del film) tornerà indietro.
Wahlberg è cecchino e medico da campo dal cuore d’oro, Foster un gelido assassino, Hirsch il più debole e umano, Kitsch il leader indiscusso: stabiliti i ruoli, lo scopo di Berg è costruire un'”epica della squadra speciale”, seguendo con attenzione maniacale – ritmi serrati, camera a mano, realismo, una delle migliori regie viste in un film di guerra negli ultimi anni – quelle poche ore (diventate poi giorni) che seguono il momento zero, in cui i quattro vengono paracadutati sui monti afghani. È l’incontro fortuito con un gruppo di pastori innocenti a dare il la agli eventi; da quel momento ci si dimentica del contorno retorico e si diventa soldati, e i dubbi e i dilemmi di Marcus, Murph, Danny e Axe passano nelle mani del pubblico: è giusto uccidere degli innocenti per prevenire il rischio che “facciano la spia”? “Afghano” è sinonimo di “terrorista” e quindi di “nemico”? Siamo lontani dalla critica della ragion pura, indubbiamente, ma parliamo pur sempre di soldati, non di filosofi, e il gioco, il realismo, sta anche nell’accettare la loro forma mentis, non nel giudicarla.
Non è un Paese per vecchi film per tutti, certo: il testosterone fluisce liberamente, la violenza è tanta e impressionante, i ritmi e i tempi sono sbilenchi – lunghi minuti di niente, azione compressa in un quarto d’ora, ancora nulla, ancora un’esplosione –, il rapporto tra i quattro difficile da comprendere appieno, il finale fin troppo agiografico, la colonna sonora (a cura degli Explosions in the Sky, che ormai scrivono la stessa canzone da anni) non sempre sopportabile. Ma è un grande film di guerra, con tutto il portato di questa definizione: qui non si critica né si fa propaganda pacifista, si vuole solo raccontare la vita di quattro soldati abbandonati da tutti, anche dal proprio Paese, in uno dei luoghi più inospitali e pericolosi del mondo. Se siete pronti a farvi colpire, verrete colpiti molto duramente.
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Mi piace
Il quartetto di protagonisti, in particolare un Ben Foster intenso e glaciale e un sempre più talentuoso Mark Wahlberg. E la regia di Peter Berg, da manuale dello war movie.
Non mi piace
La retorica la conosciamo, e non tutti riusciranno a digerirla.
Consigliato a chi
A chi ama i film di guerra, a chi non odia gli americani e il loro vizio di esportare la democrazia.
Voto: 4/5
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