L'ufficiale e la spia: la recensione di loland10
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L’ufficiale e la spia: la recensione di loland10

L’ufficiale e la spia: la recensione di loland10

“L’ufficiale e la spia” (J’accuse, 2019) è il ventitreesimo lungometraggio del regista-sceneggiatore polacco (naturalizzato francese) Roman Polanski.
Al ventitreesimo film arriva Il summa polanskiano: inchiesta, processo, falsità, verità, potere e corruzione. In poco più di due ore sono concentrate molte cose che aspetti e oltre delle cose che non aspetti perché non finisca l’atmosfera magica di un cinema che si usa poco o forse mai più.
Il cineasta imposta il tutto in modo classicheggiante, con forme e corpi che hanno movenze minimi. Il movimento è dentro lo schermo e la ripresa che combaciano in modo sincronistico e perfetto. Polanski trae una filmografia totale in un unicum tutto suo, come sempre. Nella pochezza dei personaggi (carnale e venere in pelliccia) o nella totalità di comparse non inquadrate si trova a proprio agio: il sunto è ciò che di c’è. L’interno è importante ma quasi superfluo. Verrebbe da dire che il muto cinema di ieri è complementare al mutismo scenografico del nostro Roman: parole tante, conflitti veri, falsità perenni ma soprattutto spazi raccontati come nessuno. Quelli minimi tra porte, maniglie, valigie, tavoli, carte e foto più o meno sporche, vie piatte e scalinate dove le ringhiere hanno un significato, persino gli occhialini spostati come i cappelli hanno una posizione a tutto tondo. In questo film i particolari contano e parecchio, le visuali anche, il silenzio fondamentale e le scrivanie sono lì a impreziosire il potere francese di fine ottocento.
Siamo nel 1894 in una Francia da ‘belle epoque’, il potere e la politica fanno passi che anticipano molto il futuro è quasi una cartina di tornasole dell’oggi. Il capitano Alfred Dreyfus viene accusato di essere un traditore e una spia per aver dato informazioni segrete ai ‘tedeschi’: viene degradato dal punto di vista militare di tutto e condannato all’esilio-carcerario nell’isola del diavolo. Ebreo e per di più colpevole. Quale buona notizia e miglior capro espiatorio per esercitare con forza la legge (manipolata) sui deboli. Antisemitismo e pregiudizio si incontrano bene per far fuori chi capita e chi conviene.
L’ufficiale colonnello Marie-Georges Picquart (non certo amico degli ebrei ma amante della verità, come lui dice) indaga sul caso e si convince dell’innocenza di Dreyfus e della manipolazione delle prove. Scritti e lettere che lo studio grafologico indicano come non prove contro Dreyfus: ma non sue le parole indicate. La non colpevolezza porterebbe ad uno scandalo che gli alti poteri non accettano. L’ufficiale deve tirarsi indietro ma i tempi e il’J’accuse’ di Emile Zola danno la strada per riaprire il tutto. I tempi cambiano come cambiano i venti. L’antisemitismo non scompare certamente. Il capitano e il colonnello si incontreranno. Una volta e mai più La riabilitazione completa di Dreyfus non avviene. Siamo arrivati al 1907.
Un film di suggestione interiore dove ogni dibattito a due è scadenza di prefinale e dove ogni ripresa di spalle corre sul binario di un carteggio ingiallito. Puzzle di carte, foglietti, parole troncate, nemesi del potere, letture e foto adesive. Le mani sui fascicoli miseri, pochi e ingranditi dalle miserie dei sotterfugi aprono il non visto o accantonato.
‘Il caso Dreyfus’ non c’è, lasci stare colonnello. Mi dia quello che ha’: la Francia militare e politica vuole nascondere tutto. La verità al di sopra delle parti, il potere insinuante in ogni riga e lo studio delle scritture pare un giallo alla Agatha Christie. Polanski ci dà dentro senza problemi raccontando quello che è stato e quello che oggi accade. I suoi fatti come un ‘ebreo in fuga’. La ricostruzione temporale, i carteggi, le lettere, il processo e gli incontri danno smalto scarno ad un film molto secco dove il sonoro non è effetto cine ma pause tra silenzi e parole. La musica scopre arriva quasi alla fine dove la via del colonnello fa da apripista a tutto il finale e all’incontro con il ‘nemico-amico’.
La finestra de ‘Il Pianista’ (2002) è chiusa per osservare la strada, qui (scena delle tante ma efficace) la finestra si chiude quando il colonnello scende in strada per aprire la via della ‘verità’.
Il buio dello schermo tra pezzi di spade e le onorificenze ancora per terra, la croce di un processo sfinito. Un finale di indagine umana sfinente e angosciante. L’antisemitismo a diverso livello, uomo contro uomo per il potere non certo per nessuna gloria.
Originale: scrittura e lettera, emme e millimetri; come dire non scrivete mai come vi pare, se stessi per non essere riconosciuti;
Copia: mancavano cartucce e stampanti ma chi sa quanti marchingegni veritieri e subdoli nel mondo che disconosce la verità, è arguzia sulla copia di essa;
Falso: scrivete per voi e per gli amici, la grafologia è arte pura o scienza delle parole intransigenti, fatevi vedere senza pennino di piuma e con un moderno vuoto di penne annerite;
Vero: la verità prima cosa da inseguire per l’ufficiale. Il resto non conta, anche se per lui il conto è andare oltre al suo comando dell’oggi. L’uso di qualcosa per fini personali.
Jean Dujardin (M.G. Picquart) e Luois Garrel (A. Dreyfus) sono veramente esemplari nelle parti, nelle movenze, nei corpi, nei tragitti, negli sguardi vitrei e nelle storie interiori. Prove glaciali e piene di ardore. Il primo tiene il campo con vera saggezza antica e prova attoriale senza sbavature; il secondo inchioda il nostro sguardo quando teso e nervoso si rimette gli occhialini al posto giusto mentre una vittoria pare avvicinarsi. L’incipit è di rara forza registica come l’incontro finale tra i due: asciutto ed essenziale, asonoro e asciutto.
Tutto il cast ha importanza rilevante: nessun sovrappiù e ridondanze generiche; la messa in scena resta scolpita e ferma, mai una ripresa di spettacolarizzazione intensa; solo la musica (di Alexandre Desplat) dilata il pensiero dell’inquadratura e dei personaggi (nella parte finale); la fotografia di Pawel Edelman (già più volte collaboratore del regista) restituisce vigore e lineamenti, oscurità e movimenti ad un’epoca che non pare così ‘belle’.
Regia di Roman Polanski a tutto tondo, immediata e fortemente incisiva. L’esempio di un cinema dove ogni immagine è un ‘romanzo’ e dove ogni luogo è una storia a se. Cinema fermo e in grande movimento (e qui sarebbe lungo l’attacco a diversi modi di ‘ripresa’ oltre al suo mondo).
Voto: 10/10 (*****) -cinema intenso- (capolavoro).

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