Il totem del lupo è uno dei fenomeni letterari più importanti della Cina. Pubblicato nel 2004 da un autore anonimo, che si è firmato con lo pseudonimo di Jiang Rong, il romanzo è scampato alla censura, diventando, in breve tempo, il successo più clamoroso dopo il Libretto Rosso di Mao Tse Tung.
Jean-Jacques Annaud ne aveva letto solo alcune pagine, prima che una delegazione cinese andasse a trovarlo nel suo appartamento di Parigi per proporgli un adattamento, e aveva vissuto sin dalle prime battute una sintonia tra il protagonista del racconto e la sua stessa esperienza, che negli anni ’60 lo portava, lontano dall’Europa e in concomitanza con il servizio militare, alla scoperta del Camerun, dove si preparava a girare il suo primo film.
Con questa coincidenza di sentimenti e di ideali, non ultimo per il côté politico della vicenda, il regista francese accetta il progetto di trasposizione cinematografica e si imbarca alla volta della Mongolia, dove gira L’Ultimo Lupo. Fortemente voluto da una parte dalle autorità locali, preoccupate dall’imperversare dell’inquinamento e dunque dalle ricadute economiche sul turismo e sul territorio, e sostenuto dall’altra dal WWF, che ha dato il proprio sostegno alla pellicola, il film racconta la storia, ambientata nel 1967, di uno studente, Chen Zhen, inviato dal governo di Pechino, in piena Rivoluzione Culturale, nelle remote zone interne della Mongolia per insegnare a una tribù nomade di pastori che vive a contatto con pascoli e lupi, animali da cui il giovane viene immediatamente sedotto.
Nel momento in cui un ufficiale del governo decide di eliminare tutti i lupi della regione, Chen Zhen, trovato un cucciolo, decide di salvarlo dallo sterminio e di accudirlo con il pretesto di uno studio scientifico e comportamentale sulla sua natura, nonostante siano subito evidenti problemi di convivenza tra lo spirito selvatico e libero dell’animale e gli abitanti della tribù.
Dopo L’orso e le tigri di Due Fratelli e grazie anche all’esperienza di Sette anni in Tibet, Annaud si confronta con il paesaggio cinese con uno sguardo tutt’altro che estraneo. Anzi, grazie a una profonda interazione avuta sul set con i luoghi e la popolazione locale, intreccia una messa in scena che mette a confronto e risolve il binomio natura-cultura. L’Ultimo Lupo è, in questo senso, un film di sguardi: sguardi sul paesaggio della Mongolia, ora brullo e montuoso, ora inospitale e innevato, ora verdeggiante e munifico, sguardi sulla popolazione tribale, sui suoi costumi e il suo sapere arcaico e orale; sguardi sulla civiltà cinese del progresso e della modernizzazione, che fa sentire i suoi effetti (l’agricoltura meccanizzata, la radio, gli antibiotici) persino nelle più remote zone rurali della Cina; sguardi sugli armenti e sui lupi, controparte drammatica della vicenda.
Dotati di un occhio che luccica nel buio, i lupi di Annaud, oggetto e soggetto scopico del film, esprimono il senso più libero e anarchico della pellicola, e dunque quello più politico e più sentimentale: la vittoria della natura sulla cultura e del paesaggio sulla modernizzazione. Nonostante la sconfitta storica, che ha effettivamente portato allo sterminio dei branchi nel corso della Rivoluzione Culturale e quella contemporanea, che sempre più segna l’avanzata della modernità sulle tradizioni rurali, il film rende giustizia, facendo del lupo, letteralmente, il suo totem, tanto ai luoghi selvaggi, tanto alla civiltà raccontata nel romanzo.
Riuscito a superare quasi miracolosamente il vaglio della censura cinese, L’Ultimo Lupo porta lo spettatore e il regista stesso, in un’identificazione con Chen Zhen, a comprendere l’altro da sè, penetrandone la diversità. A questo contribuiscono una messa in scena credibile, che non scivola nel rischioso espediente di antropomorfizzare l’ambiente selvatico e gli animali per accentuare l’immedesimazione (tratto che ad Annaud riesce impeccabilmente naturale), e, senz’altro, la lunga gestazione e il contatto diretto della troupe con la popolazione locale e con i lupi. La preparazione attenta in più di tre anni, adattandosi ai tempi necessari dell’addestramento, accompagnata da una fedele ricostruzione delle ambientazioni, conferisce alla pellicola una credibilità degna di nota. A tratti, tuttavia, gravano sugli equilibri del film una composizione troppo classica del quadro e della veduta e una mancanza di tensione che, mentre si raggiungono guizzi di indiscutibile perfezione (su tutti la scena dell’inseguimento notturno dei cavalli, che culmina con una visione raggelata che sconfina con la rappresentazione pittorica), si concede spesso pause e tempi più dilatati e, per questo, meno coinvolgenti.
Leggi la trama e guarda il trailer
Mi piace: l’accento sull’opposizione tra natura e civilità, l’abilità di non antropomorfizzare gli animali, pur rendendoli protagonisti
Non mi piace: le pause troppo lente a fronte di momenti di tensione ottimamente costruiti, che danno un ritmo incostante al film
Consigliato a chi: vuole conoscere uno spaccato storico-culturale della Cina maoista meno nota
Voto: 3/5
© RIPRODUZIONE RISERVATA