L'uomo con i pugni di ferro: la recensione di Gabriele Ferrari
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L’uomo con i pugni di ferro: la recensione di Gabriele Ferrari

L’uomo con i pugni di ferro: la recensione di Gabriele Ferrari

C’è una battuta che circola molto tra gli appassionati di musica: «Il jazz è quel genere che diverte di più chi lo suona di chi lo ascolta». RZA dei Wu-Tang Clan,collettivo hip-hop che ha segnato indelebilmente la storia del genere, con Miles Davis ha molto poco a che fare, se non fosse che, se prendete la frase qui sopra e mettete “L’uomo dai pugni di ferro” al posto di “jazz”, il senso non cambia: il debutto da regista del rapper e produttore è (per lui che l’ha girato) una grande festa e (per noi che lo guardiamo) una lunga sbrodolata autoindulgente e un po’ noiosetta.

La storia del film è quella di molte altre pellicole che vedono coinvolti in varia misura i mecenati della violenza Eli Roth e Quentin Tarantino: il primo produce, il secondo, più genericamente, «presenta». Al regista di Hostel, in particolare, va il merito di aver quantomeno provato a dare a L’uomo dai pugni di ferro una forma potabile per il pubblico: rispetto all’epica di quattro ore – potenzialmente distribuite su due film – a cui aveva pensato RZA, ci troviamo di fronte a neanche due ore di omaggi assortiti alle maggiori passioni del rapper, nello specifico kung-fu, wuxia (cinema orientale in generale), sangue, droga e donne nude. Si racconta di due clan rivali, quello dei Lupi e quello dei Leoni, e di un carico d’oro di proprietà dell’imperatore che i Leoni devono proteggere; la tavola sembra apparecchiata per una classica battaglia tra gang rivali (retaggio del passato gangsta di RZA?), ma i soliti tradimenti e colpi di scena trasformano il film in un tutti-contro-tutti che coinvolge un nutrito e pittoresco cast di personaggi che lo stesso Tarantino troverebbe eccessivi.

Ci sono ninja gemelli che combattono sincronizzati, il wrestler Dave Bautista nei panni di un guerriero in grado di trasformare il suo corpo in metallo, un uomo di nome X-Blade; e poi la tenutaria di un bordello (Lucy Liu) che non disdegna di menare le mani, un agente segreto inglese (Russell Crowe, grassissimo) che al suo lavoro preferisce droga e belle donne, e naturalmente l’uomo dai pugni di ferro del titolo, ovvero lo stesso RZA – spiegarvi il perché del suo nome significa rovinare la trovata migliore del film, quindi glisseremo elegantemente. C’è, soprattutto, una vera e propria orgia di riferimenti, citazioni, omaggi a decenni di cinema di arti marziali, cameo eccellenti (Pam Grier, Gordon Liu), miscelati con entusiasmo e buona volontà ma senza un’oncia della misura e del talento del vero modello di questo progetto: parliamo di Tarantino, ovviamente.

Il risultato è un film confuso e indeciso sulla sua stessa identità: ricercato pastiche o pasticcio a tutto tondo? Per chi di Tarantino apprezza l’aspetto più superficiale («Ehi, questa scena è uguale a quella di un film culto degli anni Settanta che…») sarà una festa, e la prestazione enorme – non c’entra la bilancia, davvero – di Russell Crowe compensa una certa noia molesta che si fa strada nel corso della visione. Peccato solo che RZA sia più volenteroso che talentuoso, e che quello dell’attore non sia decisamente il suo mestiere: con meno entusiasmo infantile e un pizzico di controllo artistico in più, L’uomo dai pugni di ferro poteva diventare il divertissement definitivo. Così com’è, invece, è come ascoltare un concerto jazz: si diverte di più chi lo sta eseguendo degli spettatori.

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Mi piace
L’entusiasmo con cui RZA mette in scena questo circo è contagioso, almeno all’inizio. Russell Crowe è memorabile. Alcune trovate estetiche sono spettacolari.

Non mi piace
Troppa roba, poca misura: il rischio di annoiarsi è dietro l’angolo. E RZA dovrebbe fare una lunga riflessione sulla sua neonata carriera d’attore.

Consigliato a chi
Ai fan di Tarantino, naturalmente, e a chi ama il cinema di arti marziali.

Voto: 2/5

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