Jérémie (Félix Kysyl) lascia Tolosa per tornare nel piccolo comune di Saint-Martial, in Occitania, per il funerale del panettiere, suo ex datore di lavoro a cui era molto legato. Si ferma per qualche giorno a casa di Martine (Catherine Frot), la vedova del defunto, che gli è affezionata. L’affetto di Martine, la violenta gelosia del figlio Vincent (Jean-Baptiste Durand), amico di gioventù di Jérémie, la tensione con il solitario Walter, l’attenzione del parroco del villaggio, l’abate Philippe Griseul (Jacques Develay), fanno emergere un passato che avrà conseguenze inaspettate.
Alain Guiraudie, senza troppi giri di parole, è uno dei registi più politici della contemporaneità: un cineasta che ha un’idea precisa e pulita delle cose del mondo, articolata attraverso una visione esplicita della corporeità e delle sue ricadute più impudiche e immorali. Era così ne Lo sconosciuto del lago, il sontuoso ed elegante thriller queer che ne ha consacrato il talento agli altari della cinefilia più larga, e nell’altrettanto scabroso Rester Vertical, ma anche nel suo più recente L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice, scherzo solo in apparenza più leggiadro ispirato alla tradizione dei vaudeville francesi.
Miséricorde, il suo ultimo film (prodotto dal collega catalano Albert Serra), che tanto per cambiare esce in Italia con un titolo più didascalico, L’uomo nel bosco, ribadisce il magistero di Guiraudie raccontando una piccola, ma non per questo non sordida, storia di provincia, che incrocia tensioni erotiche proibite e sentimenti forti, incursioni umbratili in scenari naturalistici oscuri ed erezioni inattese e innominabili. Il tutto incorniciato in un paesino francese dell’Ardèche abitato soltanto da 270 anime: un microcosmo pronto a celare, sotto la sua superficie solo in apparenza imperturbabile, segreti vergognosi e a tinte fosche.
L’ambientazione placida e asettica de L’uomo nel bosco, presentato nella sezione Cannes Première allo scorso festival francese, dice già molto, con le pietre sbozzate che tracciano una precisa atmosfera rurale e pre-moderna e una vegetazione autunnale e lacustre inquadrata con un paradossale, e squisitamente noir, senso dell’incanto e della poesia paesaggistica (rigorosamente virata, anch’essa, al nero), esaltato dalla notevole fotografia di Claire Mathon. Si tratta di una porzione di umanità i cui i dialoghi sono ridotti all’osso, tra bisogni semplici, sospetti striscianti ma letali e parroci di campagna che, nei loro sermoni, alludono a quanto sia importante, ancora oggi, saper fare bene il pane (non solo per un buon cattolico, verrebbe da dire).
Un contesto scabro, al contempo ruvido e spoglio, nel quale trovano posto piccoli barlumi di cristianità, e dunque anche di misericordia, fino a raggiungere la vertigine di un’ultima confessione che è insieme apice del film e suo cuore morale, oltre che sfacciata e cristallina dichiarazione d’intenti. Quello di Jérémie è un percorso a ritroso delle sue stesse origini, in cui un album fotografico è la sola traccia possibile rimasta nelle sue mani e i cui sviluppi narrativi rendono i rimandi alti a Teorema di Pier Paolo Pasolini molto più che una suggestione solo possibile; senza dimenticare la lezione di Claude Chabrol, nel focus obliquo e lunare sulla provincia francese, e addirittura quella de I pugni in tasca di Marco Bellocchio nell’iconoclastia feroce e sardonica verso l’istituzione borghese e familiare.
Le facce di molti degli attori de L’uomo nel bosco sono orgogliosamente anti-estetiche rispetto a canoni di bellezza classici, ribadendo una fascinazione di Guiraudie per il brutto che si articola anche in grugni, smorfie, incubi corporei e sensoriali che si consumano ai margini dell’urbanizzazione, dal sapore quasi lynchiano: elementi più che mai in grado di saltare agli occhi nelle ore in cui lo stesso David Lynch ci ha lasciati per sempre (in un’inquadratura, quasi casualmente ma in maniera epifania, fa addirittura capolino lo skyline “losangelino” di Mulholland Drive).
Il perturbante e il laido, come categorie estetiche e filosofiche, trovano ne L’uomo del bosco, la cui mescolanza di generi viene ricondotta da Guiraudie più al tragico greco Euripide che a Fritz Lang, un’articolazione che coniuga il gusto per il perverso a una trasparente vocazione per il sommerso. Man mano che i nodi vengano al pettine il teatro dell’assurdo, dallo straniamento evidentemente brechtiano, lascia il posto a scenari deliberatamente non sense che permettono di negare, in barba a ogni paradosso, la trascendenza del sacro, e di catapultare lo spettatore in una spiazzante atmosfera contraddistinta tanto da urla nel sonno e da una decostruzione posticcia e calcolata di ogni detection story.
“Dev’essere orribile, angosciante essere amati da qualcuno che non si ama”, sentenzia il prete, figura più che mai cruciale in questa ronda grottesca e sarcastica, con una frase che riassume l’anaffettività di una parabola amorale in cui non c’è spazio, in fondo, per nessuna forma di compassione, e nella quale il crimine più evidente è quello di voler proseguire, voyeuristicamente e morbosamente, il piacere torbido e malsano di continuare a guardare la scena del crimine. Consapevoli, sembra dirci Guiraudie, che volenti o no esistono “incidenti” fondamentali per portare avanti la bugia del presente, che nessuna prigione può essere peggio della morte ma che, al contempo, nessuna gabbia può metterci, davvero, al riparo dalla vita.
Foto: CG Cinéma, Scala Films, Arte France Cinéma, Andergraun Films, Rosa Filmes
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