Ci sono film che, una volta ogni tanto, spuntano fuori e ridefiscono lo status quo. Dopo che sono passati di solito cambia tutto, ma potrebbe anche non cambiare niente, e forse sarebbe pure meglio, perché ogni moda normalizza, cioè crea una norma che rende tutto simile e un po’ pedestre.
Il bello di questi film – e cito Le iene per il thriller, Matrix per la fantascienza, Drive per il noir – è però che non nascono solo dal talento e dall’immaginazione (doti che in George Miller, in pratica il fondatore del post-apocalittico come lo pensiamo oggi – tutto polvere e benzina – comunque abbondano), ma anche da un uso illuminato, e direi “cinefilo”, degli strumenti tecnici. È come cioè se prendessero tutto l’esistente, se lo mettessero in spalla, e poi deviassero, trovando luoghi nuovi, finendo in territori in cui il cinema non era ancora stato.
Sono film ovvi eppure originali, di intelligenza altissima.
Per tutte queste ragioni è innanzitutto un peccato che Mad Max: Fury Road non sia in concorso a Cannes, dove è stato accolto da urla più adatte a uno stadio e applausi a scena aperta: come esperienza sensoriale è paragonabile a Drive o The Tree of Life, avrebbe facilmente meritato la Palma d’Oro. Dimostra di nuovo che si può fare cinema d’autore e d’eccellenza usando (ristrutturando digitalmente) la grammatica classica del genere e poco più.
Sarebbe per questo riduttivo parlare di cinema-videoclip sulla base delle associazioni virtuose e spesso sorprendenti di immagini e musica, perché il montaggio/impaginazione serve a rendere (perfettamente) chiare le azioni tenendo (mostruosamente) alto il ritmo; e le azioni servono a mettere in piedi una mitologia cavalleresca.
Dovrebbe essere sempre così? Magari.
Un altro paradosso virtuoso riguarda la scrittura; non nel senso di dialoghi, tutto sommato piuttosto convenzionali, ma nel senso di struttura del racconto.
Allora: George Miller non bara, non ci prova neanche, e di fronte alle Major che chiedono ai loro servi-registi di girare a ritmi sempre più forsennati, lui gira a ritmi più forsennati di tutti (di tutti eh… compresi i tamarri come Michael Bay e Justin Lin). E meglio. Cioè con originalità coreografica e una costellazione di piccoli dettagli che tracciano un immaginario ricchissimo, dettagli che non possono che commuovere chiunque ami il cinema come strumento per la costruzione di mondi.
Ma come si fa a rendere tutto dinamico eppure credibile, funzionante? Come si fa a raccontare muovendo solo le pedine?
Si fa. Si mette in piedi un set-up (la prima parte, quella che spiega il contesto della storia e ne definisce i toni) preciso al millimetro, in cui ogni cosa suggerita, mostrata, raramente pronunciata, serve a definire e a circoscrivere la realtà. Lo si gonfia piano piano per tutto il film.
Nel contempo, non si smette mai di spostarsi.
Eccola la struttura; che è, davvero, il miracolo di Mad Max: Fury Road.
E infine. La storia è quella di un disgraziato che ha perso moglie e figlio nell’Apocalisse consumata, e ora si ritrova a corto di rotelle. Scappa da un popolo di pazzi che lo usa come una sacca di sangue (è donatore universale) e si aggrega a un manipolo di schiave in fuga, le spose del terribile Immortal Joe. Corrono nel deserto guidate dalla sua compagna, l’Imperatrice Furiosa, rapita da bambina, integrata e ora pentita.
Tutto questo ha importanza, riguarda sul serio lo spettatore stordito dallo show? Ce l’ha. In mezzo al frastuono, palpita la vita.
Leggi la trama e guarda il trailer
Mi piace: la vetta assoluta del cinema action nell’era digitale
Non mi piace: non è cinema di parole, non contate sui dialoghi
Consigliato a chi: vuol scoprire cosa accade quando si combina un montaggio perfetto con un uso misurato della CGI
Voto:5/5