“Mad Max: Fury Road” (id., 215) è il nono lungometraggio del regista australiano George Miller.
Quando il cinema rimette in sesto se stesso con vivacità ‘of course’, immedesimazione, incursione post e denigrazione di ciò che il luogo comune non osa più dire. Perché le maestranze tutte a rincorrere il film super accelerato e ciascuno (im)mette il proprio input d’ingegno: e per far ciò e capirne il meccanismo di oleazione adrenalinica (insita) basta leggere (impossibile) e sorbirsi tutti (tutti?) i titoli di coda. Veramente interminabili, tra unità varie, effetti, scenografie, luoghi, stunt, fotografi, macchine, colori, dediche, studios e compagnie varie. Un’infinità di nomi: un’ondata di scritte con la musica (roboante) soverchiante e ammaliante che legge fino all’epilogo dell’ultimo nome con la casa Warner che chiude il ‘cast’ (in senso nel più largo del termine) dopo oltre minuti e minuti di scritte, nomi e giustapposizioni cinematografiche. Il cinema del disegno completo e dell’archiviazione. Immagino e oltre (il dovuto ‘style’).
Quando il cinema ridesta l’oblio mentore di un intercettore qualsiasi e scompiglia ogni gioco plastificato e in lego per spostarsi oltre il tempo del postmoderno e rinvigorire il libro immaginifico della trilogia max.ima tra fulgidi apocalissi, fiati puzzolenti, maschere androgeni e cadaveri ambulanti tra torri desertiche, voltaggi sabbiosi e dune imperanti di gloria asfittica. E’ il Miller.pensiero di oggi (da ieri) che si rimette dietro il suo giocattolo (da produzioni mega operanti) per proporsi al pubblico di ieri (già visto) e quello di oggi (per domani) come per guadagnare (dollari) e proseliti di un movie-open-road buono per ogni stagione (almeno a chi crede di cavarsela con soverchio giro elettrizzato senza nessuno sconto).
Quando il cinema muove il prodotto (in circolazione) confluisce il destino di molti e la cerchia (di retaggio) intuisce che per rinverdire il mercato quale cosa migliore riprendere schemi e sceneggiature (da aggiustare ovviamente) di decenni fa. Sembra diventata una moda (fruttuosa) quella di riscrivere e rifare film degli anni passati. Mentre il buon George riposava ecco arrivare una (buona) proposta che non si rifiuta (mai): rinverdire a futura memoria il lustro (di lustri) di Max che percorre spazi e tempi in ogni modo e fare del budget (corposo più che mai) di oltre 100 (a milioni di dollari) un ampio respiro registico comando ogni stesura e carpendo l’umore (greve) di un Homo metallico in corsa e furia perenne (‘road fury’ appunto) mentre l’altra metà (sesso di gentilezza in clip e con corpo ammiccante di sapone) si srotola nel chiosco di una ‘desolata-terra-’ impolverata con acqua da salvare e un impero sempre in guerra (giammai far finire la stirpe senza fecondare la nuova vita) mentre la ‘Furiosa’ è lì con braccio meccanico a ricordare alla virilità imbalsamata che il tempo di riscatto è lì vicino come non mai.
Quando il cinema c’è, il mercato si scompone sempre e va bene (quasi sempre) per tutte le stagioni. E Miller (che non è stato certo un prolifico a vari gradi) si rimette in gioco per un nuovo (vecchio) road apocaloide e futuristico (sempre gli intenti con tanto di più degli esperimenti veramente riusciti) per cercare di divertirsi e divertire il pubblico. E quello che è stato il senso iniziale (minimo) del primo Mad Max (1979), con i suoi sconquassi e soqquadri di un’epoca di rigetto, si perde in quadrato al cubo di ogni sorta di azione dove non ha senso neanche porsi la domanda della posizione della macchina da presa e del punto di vista dei personaggi (il basso, l’alto, l’attorno, la superficie, il volo, lo spazio inerte e le polveri dentro gli occhi sempre e comunque) perché si è davanti all’azione prima che accada il tutto. E’ la parafrasi ricolma del set in evoluzione cadaverica mentre il cuore pulsante del deserto rimbomba come una tomba piena di scheletri. Il cannocchiale è di tutti, le lenti sono di ogni personaggi, i tamburi battenti suonano una carica di un assedio già avvenuto. Lo spasmo della goduria che finisce già prima degli scontri e del divenire dopo. L’acqua si offre e poi si chiude. Ecco lo spettatore dovrebbe avere acqua da bere (buona) per riflettere (un solo attimo) e capire dove porta tutto il trambusto possibile. E’ un’orgia innaturale e futuristica di un poderoso pachiderma che non si può rialzare da un letto perché e sprofondato dentro l’oblia del cinema-cinema imploso ad ogni inquadratura. E le moto in carrellata da ogni cavalcata di monte (di qua e di là) è il barlume del poco punto che rimane (l’ultimo epilogo-triturante di fordiana memoria, per chi ha ancora memoria nel futuro oltre).
“Loro cercano la speranza”, “E tu cosa cerchi?”, “La redenzione” risponde Furiosa a Mad. Sempre di liberazione alla fine si tratta e di riscatto da ciò che è ossessivo e opprimente. Tutto l’excursus del film è di una chitarra fastidiosamente oppressiva e dannatamente ridondante oltremisura (del futuro di vita-morte o di morente destino). Ecco che fa ‘luce’ (si fa per dire) e capolino, tra la musica assordante di timpani in.decibel.perpetui, ‘Dies Iraes’ de la ‘Messa di Requiem’ di Giuseppe Verdi (che compose nel 1874 in omaggio a Milano nel primo anno dell’anniversario della morte di Alessandro Manzoni): ecco appunto ‘giorni dell’ira’ per omaggiare un cinema da requiem. Di Morte si parla di un’immagine consunta e vigorosamente consumata. Spettacolo senza sosta. Ricordi senza memoria. George Miller riesce a catapultarsi dentro il ‘trailer-clip’ di se stesso (della sua-trilogia-unica’) e dopo molti lustri ci mostra la sua bravura (nulla da eccepire) nel confutare il cinema di intrattenimento (solo furioso) contrapponendolo al cinema del lussuoso morto vivente esanime e rombante. Requiem. Ligneo.marmoreo.cristalleria.vitrea.che rompe.ogni cesto ghiandolare. Prosit (con acqua).
Quando il cinema fa il pieno di carburante anche per il futuro. Senza ottani, forse, con più passione.
Voto: 6½. (per un semplice e arioso tempo che di sosta non ha pause).