In “Man in the dark” tre ragazzi di Detroit svaligiano case ricavando ogni volta all’incirca diecimila dollari, aiutati dall’avere nel gruppo il figlio di una guardia giurata, con le chiavi degli appartamenti da derubare. I giovani vengono a sapere di un veterano di guerra, che ha ricevuto come risarcimento trecentomila dollari in seguito alla tragica morte della figlia avvenuta in un incidente. Tentano allora il colpaccio incoraggiati dal fatto che l’ex militare ha perso la vista, a causa delle schegge di una granata. Pare un colpo facile: una volta però che i ragazzi si sono introdotti in casa del veterano capiranno che da predatori sono diventati prede, in balia del proprietario della casa.
Il regista uruguaiano Fede Alvarez, al suo secondo lungometraggio dopo il remake del 2013 de “La casa”, dirige questo film di genere ambiguo, un po’ più thriller ma comunque horror, che non percorre un rigido binario narrativo impendendo in questo modo di prevedere facilmente il destino dei protagonisti. Girato con un budget contenuto e in una Budapest come scenografia sostitutiva di Detroit, “Man in the dark” (ma il titolo originale è “Don’t Breathe”) ha in sé un realismo d’eccellenza, di una violenza cruda (basti pensare che mettere in scena un pestaggio femminile è un’affermazione d’intenti decisa), per vivere da vicino la tremenda situazione in cui tutti i protagonisti sono coinvolti. Il film non scende mai nello splatter e riesce a spaventare bene tenendo sempre alta la tensione per tutto il film, senza quasi mai lasciare allo spettatore il tempo di prendere fiato.
Merita di essere citata su tutte, per la sua particolarità, la scena – girata con una telecamera ad infrarossi – di caccia al buio nei sotterranei della casa: il film punta infatti molto sull’aspetto sonoro, oltre che visivo; i dialoghi tra l’altro sono pochi e a contare sono piuttosto i respiri, le urla, gli spari, le botte e le colluttazioni durante tutta la vicenda ambientata all’interno della casa.
Ha una fotografia diretta all’essenzialità della visione, con movimenti di macchina semplici, senza virtuosismi, ma studiati, con la telecamera che sta sempre appresso ai personaggi e non abbandona mai l’abitazione, se non all’inizio e verso l’epilogo.
È un ottimo film anche per la presenza di un buon cast che vede nei panni dei tre ragazzi Jane Levy (Rocky), che aveva già recitato nel precedente film di Alvarez “La Casa”, Daniel Zovatto (Money), presente in “It Follows”, Dylan Minnette (Alex), interprete in “Piccoli brividi”; il ruolo del veterano è invece di Stephen Lang, già attore nel famoso “Avatar”. Quest’ultimo sicuramente è quello che fa da collante del film, con un sua interpretazione molto fisica e insieme espressiva.
Alla fine tutto questo gioco del gatto con i topi riesce e il sentimento che prevale è quello di pietà per l’orrore della brutalità che incombe e viene attuata sia dai ragazzi che dal veterano. Non si capisce infatti di chi siano le colpe nel film: tutti sono colpevoli e allo stesso tempo vittime; sta allo spettatore volere giudicare i protagonisti, per delimitare il confine che c’è tra il bene e il male.
Voto: 4/5
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