Manchester by the Sea
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Manchester by the Sea

Manchester by the Sea

Sulla bacheca personale dei premi Casey Affleck nel 2017 ha già appoggiato un Golden Globe e un BAFTA come migliore attore protagonista e ora procede spedito, con una nomination agli Oscar in tasca, verso la Grande Notte. La vittoria, però, non sarà affatto scontata: il talentuoso fratello di Ben dovrà vedersela col Ryan Gosling di La La Land e il Denzel Washington di Barriere e non è detto che avrà la meglio. Eppure la vittoria se la meriterebbe tutta, per essersi cucito addosso un personaggio complesso e ruvido come la cartavetro: di pochissime e stentate parole, al limite dello scorbutico, sguardo sempre basso, cicatrici interiori che non rimarginano e furia che a tratti scoppia improvvisa.

Casey è Lee Chandler, tuttofare di un complesso di condomini di Boston, che vive in un seminterrato e, a parte le quattro parole che scambia con gli inquilini per eventuali guasti e riparazioni, sembra essere privo di una qualsiasi vita sociale. Fino a quando la sua routine viene interrotta dalla morte del fratello Joe, costringendolo a tornare nella città da cui è scappato, la Manchester sul mare del titolo situata nel gelido e nevoso Massachusetts, per dimenticare un passato che pesa come un peccato mortale. Dove il fratello maggiore prima di morire gli ha giocato un bello scherzetto, designandolo tutore del nipote Patrick, un vivace sedicenne dalla zazzera rossa.

Kenneth Lonergan, che del film è anche sceneggiatore, è molto bravo a svelarci lentamente la storia del misterioso Lee attraverso il montaggio, creando con dei sapienti flashback un ponte che – quasi in soluzione di continuità – ci trasporta avanti e indietro tra passato e presente, rivelandoci il forte legame tra l’uomo e il fratello maggiore, tra lui e il nipote quando era bambino, tra lui e l’ormai ex moglie, fino alla tragedia che ha cambiato la sua vita per sempre.

Il tuffo nel passato riapre una ferita che Lee accetta di sopportare solo per l’affetto che lo lega al ragazzo e al debito di riconoscenza che ha nei confronti dello scomparso Joe, ma l’impresa è più difficile del previsto, perché il contrasto tra i due caratteri non potrebbe essere più accentuato. Mentre Lee è una sorta di zombi ambulante che cerca di non farsi contaminare da alcuna emozione, Pat è un adolescente affamato di vita, di esperienze sessuali, di hobby ed esperienze. Ed è quest’esuberanza (messa al suo fianco non a caso dal fratello Joe) che finisce per incrinare l’apatia stratificata dello zio, creando delle minuscole crepe.

Non siamo però nel territorio dei racconti classici di redenzione. Nessun facile happy ending per questo indie che parla della vita e delle sue tragedie con pudore, senza cedere alla tentazione della risoluzione affrettata. Anche quando Lee incontrerà l’ex moglie Randy (una Michelle Williams molto toccante, pur nella brevità della sua presenza in scena) e le sue parole scalfiranno lo scudo protettivo che si è costruito, non sarà l’inizio di una rinascita vera e propria, quanto piuttosto di un leggero cambio di marcia.

Lonergan qui si dimostra maestro nel descrivere i tempi e le soluzioni dell’anima, solitamente molto più lenti i primi e più complesse le seconde di quelli offerti dal cinema.

Mi piace:
Il pudore con cui il regista affronta le situazioni drammatiche e il montaggio fluido delle scene passate e presenti

Non mi piace:
L’esasperazione un po’ studiata di certe situazioni

Consigliato a chi:
Apprezza i film indipendenti che sanno mettere a nudo i sentimenti

Voto: 4/5

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