Manchester By the Sea: la recensione di loland10
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Manchester By the Sea: la recensione di loland10

Manchester By the Sea: la recensione di loland10

“Manchester by the Sea” (id., 2016) è il terzo lungometraggio del regista-sceneggiatore newyorkese Kenneth Lonergan.
Un film corposamente nullo, un film altamente sottrattivo, un film di dramma nascosto.
Una storia di dolore intimo e infimo che nessuno riesce a scalfire: ogni volto, ogni luogo, ogni inquadratura, ogni notte e ogni via non vogliono prenderne una parte ma tutto il possibile.
Ciò che si sente e non si sente sono all’unisono un corpo violentato e un’anima distrutta: eppure silenzio, voci, acqua e barche, neve e interni sono tutti strapieni di un nulla implosivo e di un rumore assordante. E’ il cinema di ogni giorno di cui pochi si accorgono: le voci interiori che non parlano (quasi) mai.
Il cinema di Lonergan passa da piccole cose e da grandi sprofondi con un’intercalare soffuso di immagini, grigie e tetre, oscure e annebbiate, come una bottiglia vuota di birre che vorresti bere. E’ un languido malinconico piene di riprese d’archivio e salate. Mai un eccesso dopo dialoghi e incontri, pugni e sbronze. Il fumo che rimane è solo odore di piena autunnale e di un inverno scevro di scherzi e macerazioni gioiose.
Lee vive a Boston solo e dimenticato: lontano da Manchester-by-the-Sea dove la tragedia famigliare gli ha tolto ogni legame. Quando suo fratello Joe muore è costretto al ritorno: nominato tutore del nipote Patrick e deve occuparsi di funerale e il lascito del fratello. Problemi concreti e ricordi tragici si mescolano in un contorno agglutinato tra malinconia estrema e fantasmi inespressi, interni sformati e esterni ammantati.

L’inizio è folgorante per quello che non dice e vuole dire nel dopo: inquadrature spezzate, case e vie, neve e auto, Lee e il lavoro, Boston e le distanze. Tutto con pochissime e asciutte fermi-immagine, quasi degli scatti di un presente che è bloccato su un passato che vedremo aprirsi con rientri narrativi e gesti minimi. Un film essenziale ed esistenziale, gocciolante e morente, mestamente vitale.
Sono i corpi che si incontrano senza un destino da scrivere: è il passato che schiude ogni scritta su una pagina bianca piena di fumo. I fiori non ci sono: si nascondano appassiti dentro il vulnerabile Lee. Patrick diventa una sua attenzione e, forse, il suo destino.
Matthew Broderick (che ha preso parte ai tre film del regista) è un Jeffrey fuori gara che si vede per un attimo in un incontro tra la mamma di Patrick, Randy , il suo compagno e il figlio adolescente. Scena da metabolizzare: seduti a tavola, lei si alza e va in cucina, lui si alza per seguirla mentre Patrick solo dopo un attimo è già seduto sull’auto di Lee che è venuto a riprenderlo. Un minuto è la durata del tutto. Jeffrey sembra l’apripista della storia da reinventare: è lui che scrive una mail a Patrick per un eventuale cambio di rotta. A sua insaputa lo zio è il suo solo contatto.
Lee è come un vaso di coccio: scontroso, scurrile, stranito, scomposto, spento; Lee è come una birra schiumata: empatico, ermetico, esplosivo, eretico; Lee è solo un pescatore senza lenza: accasciato, asettico, aritmico, algido. Patrick e Lee ognuno con il suo adombrano una vita in risalita come una pallina con cui giocare lungo una strada in ascesa.
Tutto dentro, tutto implosivo: è un dolore scioccante. Solo Patrick riesce a svegliarlo, a contattarlo, a smuoverlo, a scardinarlo, a dialogare. E un’inquadratura di spalle sulla barca ereditata dal padre Joe attivano una pesca verso un qualcosa che non sappiamo. Un’apertura alla vita, al ricordo, ai vicoli e all’ascolto. Silenzio e solitudine, silenzio e liberazione: Lee e Patrick guardano l’orizzonte.
Casey Affleck (Lee Chandler) ha colto il segnale per donarci una prova a tutto tondo per un personaggio vuoto di molte cose esterne. Implosivamente perfetto (con un Oscar che gli si addice). Lucas Hedges (Patrick Chandler) ha dalla sua un viso intriso del personaggio e una baldanza dubbiosa tra le sue mani infreddolite.
Regia mesta e avvolgente, scheletrica e rotolante. Le inquadrature tronche misurano delicatamente ogni aggiunta superflua: linguaggio-cinema efficace e saliente.
Voto: 8/10.

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