Lee Chandler (Casey Affleck) lavora a Boston come custode e factotum di un palazzo, è sempre disponibile per qualsiasi servizio di manodopera, lavora bene ed è di poche parole. Vive in un piccolissimo monolocale, non ha amici e non ha una vita sociale, se si esclude qualche bevuta solitaria al pub. In seguito alla morte del fratello maggiore, deve tornare per qualche giorno al paese d’origine, una piccola località sul mare, e apprende che il fratello lo ha nominato nel testamento tutore del nipote sedicenne, Patrick (Lucas Hedges), ora rimasto completamente solo. Ma questo per Lee è forse un impegno troppo grande, nonostante voglia bene al nipote, e passa un breve periodo insieme a lui, con la sua quotidianità di adolescente, meditando sulla decisione da prendere.
Attraverso continui flashback che s’intrecciano col presente lungo tutto il film la situazione si definisce sempre meglio e si apprende che alle spalle di Lee c’è una tragedia famigliare che gli ha portato via moglie, figli e affetti, di cui è responsabile lui tanto quanto un terribile destino. Così vive quotidianamente il peso del senso di colpa e dell’abbandono, che cerca di “espiare” con una sorta di autopunizione, infliggendosi una vita alla deriva della tristezza.
Kenneth Lonergan è regista e sceneggiatore che scava nei personaggi senza compromessi, prendendosi i suoi tempi, rallentando lo sviluppo della storia per far emergere il vissuto e la complessità dei protagonisti. Con soli tre film all’attivo in circa 15 anni (da recuperare il poco noto “Conta su di me”), Lonergan approfondisce in ogni suo lavoro i legami famigliari, mai facili, e pone i protagonisti di fronte a scelte (anche morali) da prendere, prima di tutto facendo i conti con se stessi.
“Manchester by the sea”, con i suoi personaggi autentici e complessi, non cerca facili colpi di scena, ma lascia che la storia si insinui poco per volta sotto la pelle dello spettatore, quasi narrandosi da sé, mentre sullo sfondo emergono l’intreccio degli affetti famigliari, il dover affrontare dolorose fratture e la difficoltà di rimettere in sesto il passato. Il tono della narrazione è sommesso, rigoroso, a tratti dolente, ma mai patetico, e affronta con pudore i sentimenti dei personaggi. Le note di musica sacra che trapuntano la storia contribuiscono a creare una “gravitas” trattenuta e composta, in qualche modo rispettosa dell’equilibrio formale della pellicola.
Casey Affleck si adatta perfettamente allo stile narrativo del film con una recitazione sottotono, che lavora per sottrazione; lo sguardo vuoto e l’espressione in bilico tra il rassegnato e l’indifferente – già sfoggiati in pellicole come “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” (Andrew Dominik, 2007) e “Il fuoco della vendetta” (Scott Cooper, 2013) – si mimetizzano con la storia, rendendo la presenza dell’attore quasi una non-presenza. Classico ruolo da Oscar, Affleck ha meritatamente vinto come miglior attore protagonista. Lo affiancano una dolente Michelle Williams, in un piccolo ma intenso ruolo, e il semisconosciuto Lucas Hedges, che nel ruolo del nipote intreccia un sensibile (e non facile) rapporto con Lee, che ci vuole testimoni con la sua semplice e mai scontata verità.