Una notte, all’improvviso, il diciottenne Davide (Francesco Gheghi) viene rapito e rinchiuso nella buia centina di un camion, dove si trova costretto a lottare con uno sconosciuto e a ucciderlo a mani nude. Il suo rapitore, Minuto (Alessandro Gassmann), diventa per lui un padre putativo, lo allena a lottare e lo fa entrare in un circuito di combattimenti clandestini organizzati per appagare la sete di sangue degli spettatori. Solo l’amore, forse, potrà salvarlo.
“Non c’è nessun inferno e neanche il paradiso. La vita è qui, la ricompensa è qui, il dolore è qui“: si apre con una citazione da Edward Bunker, l’opera seconda di Mauro Mancini, che, dopo aver trionfato alla Settimana della Critica di Venezia con Non odiare, prende le mosse da un romanzo di Paola Barbato per raccontare in Mani nude un sottobosco criminale nerissimo, in cui degli uomini sradicati da ogni contesto sociale e personale vengono imprigionati come animali in gabbia, costretti a combattere selvaggiamente gli uni contro gli altri per ripagare dei debiti contratti in precedenza.
Il camion che si vede all’inizio del film, coi suoi moti circolari a disegnare cerchi esatti, dice già molto e suggerisce immediatamente l’idea dello sprofondamento in un girone infernale in cui non ci sono né vincitori né vinti, comunque vada, ma solo dannati. Mancini ci mostra questo microcosmo rovesciato, dalla geometrica ferocia, senza risparmiare il livido e crudo fatalismo che lo abita (“Stanotte hai toccato le persone sbagliate, a volte capita”) e con la fotografia di Sandro Chessa, che oscilla tra tonalità nere, blu, rosse e verdastre, a far risaltare corridoi e architetture orribilmente squadrate come fossimo dentro a una versione più scarnificata, brutale e proletaria di certi incubi di Nicolas Winding Refn e della claustrofobia estetizzante e ovattata di Solo Dio Perdona, in particolare.
Si potrebbe evocare ovviamente anche Fight Club, al cospetto di Mani nude, ma quello di Fincher è un riferimento fin troppo largo, la cui sensibilità postmoderna c’entra poco con la cupezza senza ritorno di un racconto in cui i personaggi sono cani tra altri cani, ma con la possibilità al massimo di essere promossi a “cani maggiori” sul campo di battaglia e di migliorare così la propria graduatoria nell’orizzonte dei combattimenti futuri, accedendo a scommesse e giri di denaro più ingenti.
Se Mani nude convince pienamente sul piano registico, è la scrittura a lasciare qualche perplessità in più, per come gestisce i singoli passaggi narrativi e per il modo in cui sconfina, forse senza oliare a sufficienza tutti i meccanismi di verosimiglianza, dal noir fisico alla tragedia familiare in piena regola, lavorando sempre di sottrazione, ma andando a smarrire la credibilità di alcuni passaggi psicologici.
Si tratta, ad ogni modo, di un’opera seconda estremamente promettente, che, nonostante il controllatissimo lavoro formale e di messa in scena, non si lascia imbrigliare dalla maniera, e il cui fiore all’occhiello sono soprattuto le prove attoriali. Alessandro Gassmann, dopo essersi confrontato con atmosfere altrettanto malate nella sua opera prima da regista Razzabastarda, presentato sempre alla Festa di Roma nel lontano 2012, ritrova finalmente un personaggio a tinte davvero fosche: quello di un allenatore indurito dalla vita che l’interprete tratteggia con un radicale immobilismo recitativo, specie nella scansione delle battute, ma che nella seconda parte si scioglierà verso sfumature imprevedibili, tragiche e senz’altro struggenti. Ad affiancarlo, oltre a un Renato Carpentieri in abiti eleganti da “mammasantissima” con occhio bendato alla John Ford e una Fotinì Peluso capace di declinare il suo personaggio anche con pochissime scene all’attivo, c’è però soprattutto Francesco Gheghi, che dopo aver impressionato con Familia all’ultima Mostra del Cinema di Venezia si conferma uno dei talenti italiani più vibranti e sensibili della sua generazione.
Foto: Eagle Pictures/Pepito Produzioni/Rai Cinema
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