“Maps to the Stars” (id., 2014) è il ventunesimo lungometraggio del regista di Toronto David Cronenberg.
Interni ed esterni, dentro e fuori un set continuo di superficie invisibile e di un vuoto di parole che s’addensano come non mai in un cielo colorato e finto. In un piccolo etimologicamente parlando contorno di famiglia e di quello che dentro vi è rimasto, nel nulla di un set continuo di baldanza in baldanza, che si stringe sullo schermo per non farlo (quasi) mai vedere.
Un cinismo superficiale e graffiante come non mai in una mistura lieve e ficcante di un parlare vuoto e inverecondo tra chiose virtuali e sentite e leggende metropolitane realizzate in un set continuo invisibile e misconosciuto dove vige forza e debolezza di un uomo sfatto, defecante, trito, demistificante, inglorioso, stupido e stupito più di nulla. E’ la passione orrorifica e destabilizzante di un mondo oriundo e semplice, otticamente sfracellato con attori di parvenza e attoroni demiurghi di se stessi con nullità interiore e voluttuosità ancestrale per pregio, incarico e super-soporifero piedistallo (di nulla da contraccambiare). Figli e padri, madri e amiche, minori e maggiori che cinguettano fra di loro, sbraitano, slabbrano, si azzannano, sognano di ammazzarsi, si vogliono strozzare e campeggiano con linguaggi secchi e puerili e forbiti da un un uso intercalare ovvio e di bassa fattura. I piccolini somigliano in peggio ai grandi e i ‘cosiddetti’ grandi dimostrano di non saper spadroneggiare (per nulla) la verve colorita e dileguante dei piccoli attori che ne sanno certamente per distruggere, affossare e stritolare ogni bassezza vera della vita sociale di una famiglia scomparsa, incenerita e scurrilmente vuota. E alla nemesi di un gruppo di interni inesistente fa da specchio (quasi più reale) il mondo esterno (falso-vero che si mescolano senza ragione alcuna) in un rigurgito di puro stillicidio infantile e al lacrimevole ripugnante (ma abituati aimé , oggi…) uso di parole vuote, sfilacciate piene di intercalari per accedere al gradino più alto. Il potere vero e cazzeggiante dell’apparire che a quaranta ti senta una ‘merda’ e speri nella ‘morte’ cinematografica di qualche presunta star per arrivare ad una parte ed alzarsi dal water (almeno per pulirsi…) senza odorarsi mani pieni di sudiciume di tristezza; nel frattempo i ‘bimbi’ rampolli la fanno da padrone e s’arrampicano tant’è che il quasi ‘neonato’ (si parla di un figlio appena vociante e bambino…) spara ogni cartuccia per togliere il lavorio di parte nel nuovo film da girare. Hollywood senza nessun sguardo e piena di alchimie (e lestofanti personaggini) per far scodinzolare i ‘bipedi’ senza un barlume di uso dell’intelligenza. E’ voglia di arricchirsi, di esserci, di far cagare gli altri, di scoparsi qualcuna e di mandare all’altro paese genitori (presunti) e fratellino (maleodorante…). Una tristezza falsa e finta che di oltremodo realtà e rispecchia e che quest’ultima ne fa a gara, Il racconto è pino di tutto senza un fondo ad ogni linguaggio perché lo stesso (linguaggio) intristito, lacero e melmoso dice tutto senza indagare. Colpevoli senza nessuna attenuante per non farci più sognare e far morire la vita del cinema. E la morte dell’uomo è già cancro di una società orripilante. Non si salva nessuno.
Puro di cinema, senza nessun compiacimento e niente affatto costruito per scolpire qualche volto o, ancor più, qualche stanza ben accessoriata da incastonare come fosse l’archetipo di un giudizio giammai effimero, il film di Cronenberg coniuga sfaccettature incontrastate e divergenti all’unisono ardimentando giudizi severi e profondi su un un mondo becero, tracotante e fasullo partendo e guardando solo gli aspetti di contorno, di chiusura che sembrano assolutamente secondari. Il pranzo con tavolo spoglio, il defecare senza nessun lascito, il bambino sculettante con poca parsimonia da dire, il padre che preme con velleità di comando, gli interni cadaverici con colori di muffa sargiante, il sogno di i-pad mentre la malattia incombe, il saluto contorto con mani sul collo, la ripresa schiacciata con disegni di corpi infuocati, la vita da salutare con la morte che si destreggia, il bambino sornione che esprime demenza, il cuore spento (di tutti) senza nessuna difficoltà (da annullare). Quadro desolante e smorfie di ripresa che appiattiscono la finzione di un set dove la vita fuori è in quella dentro: tutto fuoreggia per far sparire l’interiorità (oramai parabolicamente svuotata oltre ogni dire) in un uomo disarmonico, velleitario e urinante sul suo volto (finto e cotto).
Il film di Cronenberg (Toronto) sembra chiudere la trilogia disperante di Hollywood e la sua scriteriata vita del nulla (tra godurie, eccessi di potere, denaro e sesso); con ‘The canyons’ (2013) di Paul Schrader (Michigan) e ‘The wolf of Wall Street’ (2013) di Martin Scorsese (New York). Il potere sulla distruzione dei sogni (e il cinema è un autunno serale postumo nel film di Schrader) e lo spasmo eccessivo dell’inganno e dell’uomo nefasto (cazzeggiamento ossessivo e vendita di tutto fino all’inverso ordinario di falsi sogni nel film di Scorsese); per ultimo la pellicola di Cronenberg appiattisce lo schermo e i suoi personaggi (vili e deprimenti) in una superficialità da livore disumano e da voglia di apparite. Tutto vetrina in un linguaggio insulso, banale e attraente nella sola superficie. E’ il buco di ognuno in una Hollywood castrata e allegoricamente senza ossigeno. L’uomo non è sul set: è dentro un set di morte.
Benjamin (un Evan Bird decolorato, mastino, bastardo e alquanto triturante nel semplice linguaggio) è il ‘bambino prodigio’ tredicenne in cui attorno girano, snodano, consumano, dialogano, inveiscono, arrovellano gli altri (e molti altri), il padre Stafford (un John Cusack di livello e tignoso giusto), la madre Christina (una Olivia Williams anemicamente implosiva), la sorella Agatha (una Mia Wasikowoska liignea, isterica e arrivista quanto basta), l’attrice Havana (una Julianne Moore calzante, compressa, esplodente e sinuosa), l’autista Jerome (un Robert Pattinson dinamicamente attendista e gioiosamente vuoto), l’attrice Carrie (una Carrie Fisher che recita se stessa) e Sarah (una Clarice Taggart che odora il successo e vive di forma) e in più comparse reali e finti con maestranze varie in set dilavanti e appena soporiferi.
L’inquadratura cronenberghiana ripara e corregge, allunga e svirgola, trasuda silenzio e confonde gli sguardi nello sghembo schermo nell’apparire degli adulti mentre l’occhio adolescente cinico e vizioso si pone durante l’immagine impressa e il sogno allungato di un bambino cresciuto in fretta. Oltre la carne, oltre il reale e l’irreale, il mondo si inquadra con schermo e vicinanza di una ‘faccia da schiaffi’ che s’addentra dentro il ‘loculo’ del regista canadese. Non per altro l’autista passa dalla limousine bianca del precedente film (dove era dietro per giocare con le donne tutte) a un’utilitaria di lusso in cui Jerome sovviene dal sogno per prendere confidenza (e non solo) con donne e di disponibilità immediata. Tutto in leggerezza per farsi prendere da un ragazzo mentre i figli prendono il polso di ogni situazione. Rimbambimento dei ruoli e ribaltamento di ciò che non pensavi fosse. Il potere sul sogno. Il successo ad ogni costo. Senza vivere. Appunto la morte (del cinema come metafora in Scharader, del sogno come passato in Scorsese, dell’inettitudine umana in Cronenberg).
E la fotografia di Peter Suschitzky rende la visuale del regista di Toronto in risalto ‘pastosamente’ glamour il vezzo ‘ordinario’ del vuoto interiore e della glassa superficiale di ogni personaggio. Il candore allusivo e il colore spudorato accarezza e spolvera ogni destino e qualsiasi recondito orgoglio di apparire umani, solo forza apparente e basta. La musica di Howard Shore (alter ego per lo score nelle pellicole croneneberghiane) taglia e sminuzza l’occhio di ogni sguardo appena vivo di ciascuno e riannoda i fili (labili e pasticciati) della marea neuronica del film dentro ogni destino di star. Il destino agghiacciato di nulla come potere di immagine svuotata di qualsiasi pensiero sognante.
La regia di David Cronenberg allunga e virtualizza, cadenza e predice ogni sollazzo aggrumato di morte del ‘drome’ e di un volo leggero. La testa di ‘struzzo’ in una sabbia annerita.
Voto: 9.
Maps to the Stars: la recensione di loland10
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