Margin Call: la recensione di Mauro Lanari
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Margin Call: la recensione di Mauro Lanari

Margin Call: la recensione di Mauro Lanari

Un film multistrato con tre diversi piani di lettura gerarchicament’ordinati. Su tutti, il magnate/tycoon Irons e il suo scagnozzo Spacey; in sottotraccia il broker Bettany; relegato al limite del cameo l’analista Tucci. 1) L’oligoplutocrazia mondiale domina e governa gl’eventi planetar’e il decorso delle nostre singole vite; 2) le megalobby finanziarie non avrebbero così tanto potere se non esistesse la controparte del parco buoi, sempre più avido di guadagni facil’e immediati; 3) non è ancora stato trovato alcun valido modello macroeconomico, siam’alla mercé del caos, d’un’ingestibile complessità, di sistemi non lineari sensibili anch’alla minima variazione. Queste chiav’esplicative non s’escludon’affatto, anzi. Eppure Chandor decide di proporle second’il suddetto grado di priorità. Come l’Oliver Stone di “Wall Street” (quello dell’87, non il sequel del 2010), vien’anzitutto sostenuta una tesi complottista che divide buon’e cattivi in modo semplicistico, pilatesco e manicheista: noi siamo le vittime mentre “loro” son’i truffatori; d’altronde chiunqu’invest’in borsa ha una quota di responsabilità e correità nell’indirizzo speculativo del mercato; “last but not least”, siam’al cospetto della millemillesima struttura dall’andamento a noi imprevedibile. Le ritengo tre tesi fors’antituitivamente ingravescenti, perciò è possibile ch’il regist’abbia scelto di dare maggior risalto alla più tranquillizzante, decolpevolizzante, rassicurante. Peccato.

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