«Voglio solo morire», risponde Clara al medico, alludendo alla morte fisica. Perché Clara, così come le sue compagne di stanza e le donne ricoverate presso l’ospedale psichiatrico, interiormente è già morta. La sua vita si è spezzata insieme a quella dei suoi due figli, a cui lei stessa ha posto fine.
Clara (Andrea Osvart), Rina (Chiara Martegiani), Vincenza (Marina Pennafina) ed Eloisa (Monica Birladeanu) sono, infatti, quattro donne molto diverse tra loro, ma legate da una colpa comune: l’infanticidio. Trascorrono le loro giornate cercando di espiare il senso di colpa per un gesto che ha svuotato e vanificato le loro esistenze. Nella loro convivenza forzata tanti piccoli drammi, alleanze, inimicizie, confessioni e soprattutto un dolore con cui devono fare i conti ogni giorno. E che non sarà mai superato.
Quello di Fabrizio Cattani, tratto dalla pièce teatrale From Medea di Grazia Verasani, è indubbiamente un film coraggioso, che getta luce su una malattia troppo spesso occultata e troppo superficialmente condannata dalla società: la depressione post partum. Un disturbo che colpisce fino al 30% delle donne immediatamente dopo il parto e si può manifestare in varie entità. E che recentemente, dopo numerosi casi, tra cui quello di Cogne, ha destato l’attenzione dell’opinione pubblica.
Maternity Blues lo affronta con delicatezza, senza emettere alcun giudizio nei confronti delle protagoniste – per le quali non c’è giustificazione né assoluzione – ma fotografando le loro vite, “sospese” in un limbo che le separa, ma al tempo stesso le protegge dal mondo reale. Varcare quella soglia, come sperimenta Rina, significa mettersi a nudo, affrontare le paure e le debolezze, esporsi ai pregiudizi e alle condanne della gente. Il film, oltre a interrogarsi sull’esistenza o meno dell’istinto materno (dibattito su cui la psicologia e l’antropologia hanno già emesso la loro sentenza: non esiste) e a riflettere sulla solitudine che sperimentano a causa dell’assenza della controparte maschile, diventa allora anche un’accusa contro una società superficiale che ha sempre bisogno di creare dei mostri. E da questo punto di vista il messaggio risuona forte e chiaro: anche il delitto più imperdonabile merita in realtà di essere perdonato o compreso. Anche queste assassine suicide meritano la nostra pietà.
La pellicola si muove su un terreno a metà tra il cinema e la fiction tv e non sempre riesce a tenere alto il pathos dettato dalla scelta di un tema così delicato. Ci sono alcuni cali di tensione a livello di sceneggiatura, specie quando emerge la vox populi, e laddove la regia si fa più romanzata perde la sua efficacia. Buona la caratterizzazione delle quattro protagoniste, cui non corrisponde un’altrettanto approfondita riflessione sulle colpe/responsabilità dell’universo maschile, affidata esclusivamente alla vicenda di Luigi (Daniele Pecci), il marito di Clara. Una mancanza che impedisce un’accurata ricostruzione del passato delle donne, necessaria al fine di indurre nello spettatore la pietas.
Mi piace
Il coraggio di sviscerare un tema tanto delicato e poco frequentato dal cinema. Alcune scelte registiche che riescono a sottolineare il vuoto e il disorientamento che provano le protagoniste, ma anche il senso di claustrofobia e di vertigine che le attanaglia, caratterizzandole ciascuna in maniera differente e convincente.
Non mi piace
La sceneggiatura mostra alcune debolezze e la riflessione sulle colpe/responsabilità dell’universo maschile è troppo poco approfondita.
Consigliato a chi
Considera la depressione post partum una malattia da non sottovalutare e vuole comprendere le ragioni e le sensazioni di questo disturbo.
Voto
3/5