L’attrice Elizabeth (Natalie Portman) si reca nel Maine per incontrare e conoscere da vicino Gracie (Julianne Moore), la donna che dovrà interpretare nel suo prossimo film, protagonista di un amore con un tredicenne oggetto di clamore mediatico anni prima e dal quale divampò un vero e proprio scandalo, che le valse anche un passaggio in prigione. A legarle sarà un’amicizia dai toni ambigui e misteriosi.
Todd Haynes è da sempre un amante assoluto del mélo e delle forme del cinema americano classico, che in pochi come lui hanno riprodotto, dandogli una veste altrettanto contemporanea. Un regista in grado di assorbire dentro di sé quei “fantasmi del desiderio” per plasmarli a immagine e somiglianza del proprio universo espressivo, fino a farne non soltanto una questione di stile ma anche una dichiarazione lampante di poetica.
May December, il film che ha portato in Concorso al 76esimo Festival di Cannes (il titolo fa riferimento a una relazione con molta differenza d’età), è però un’opera pressoché spiazzante, al contempo algida e inesorabile, dolciastra e dall’umorismo sinistro. Esibisce un marcato spirito camp e uno smaccato gusto queer, che accoglie dentro di sé ogni sorta di bizzarria per intavolare un raffinato giochino weirdo con lo spettatore.
Racconta di due donne e due attrici costantemente allo specchio, in un gioco di inganni e rifrazioni che si nutre, a livello di immaginario, del linguaggio solo sulla carta rassicurante delle soap americane, indirizzandolo verso un’atmosfera di strisciante inquietudine. Un film che è anzitutto un film sullo sguardo, sul vedere e sull’essere visti sotto forma di icone e proiezioni distorte, in buona sostanza sulla società dello spettacolo e sulle sue sconcezze patinate, a cavallo tra spot per la tv e riviste di gossip, colori pastello e farfalle destinate a regredire a bruchi.
In colonna sonora c’è il tema musicale, ripetuto svariate volte, di Messaggero d’amore (1971) di Joseph Losey, partitura scritta da Michel Legrand, a riprova di come Haynes voglia far ricorso a una radicale cassetta degli attrezzi cinefila – tutt’altro che scontata, ma anche d’altri tempi – e piegarla alle sue esigenze, senza badare in alcun modo ai diktat del presente e rivolgendosi con gusto retrò al passato.
May December, tuttavia, si fa forte in primo luogo di una dimensione quasi parodica, praticamente da commedia nera virata al satirico. A fare questo effetto sono in particolare le frasi e le posture del personaggio di Julianne Moore, la cui ingenuità ha un retrogusto che, come tutto il film, mescola simpatia e orrore, come in una nuova iterazione del suo personaggio in Maps to the Stars di David Cronenberg. La sceneggiatura le mette in bocca una battuta («Sono sempre stata naïf. Per certi versi è un dono») che svela da sola il senso di May December e ne tradisce la matrice più di qualunque altro elemento thriller, che Haynes usa alla fine come mero specchietto per le allodole.
Non è difficile immaginare come il suo particolare registro non lo renda un film destinato a compiacere larghe fette di spettatori, anche perché dentro May December Haynes, lavorando in una cornice da produzione indipendente, congela anche il pathos romantico e quasi febbricitante che aveva caratterizzato in passato il suo lavoro, dal melodramma alla Douglas Sirk di Lontano dal paradiso fino all’amatissimo Carol.
Di quel film di attrici e per le attrici, innamorato della propria bellezza, May December sembra una una specie di calcolato e glaciale controcampo, commercialmente suicida ma anche liberatorio: uno scherzo cinematografico sugli spettri della seduzione, sul destino beffardo che tocca in sorte a chi cerca attraverso lo specchio un’immagine di sé che ha messo smesso già da tempo di somigliargli, e con la quale forse non aveva mai avuto davvero niente a che spartire.
Foto: Cannes Film Festival
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