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Millennium – Quello che non uccide

Una moderna James Bond al femminile, una Lisbeth Salander inedita e molto diversa. A interpretarla Claire Foy, la regina Elisabetta del piccolo schermo

Millennium – Quello che non uccide

Una moderna James Bond al femminile, una Lisbeth Salander inedita e molto diversa. A interpretarla Claire Foy, la regina Elisabetta del piccolo schermo

Quello che non uccide
PANORAMICA
Regia (2.5)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (2)
Fotografia (3)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3)

Lisbeth Salander non è più la stessa. Nelle mani dell’uruguaiano Fede Álvarez, regista di un remake de La casa e dell’horror Man in the Dark, ma soprattutto con la lanciata Claire Foy a interpretarla, l’hacker dei romanzi di Stieg Larsson – uno dei personaggi femminili più inquietanti e traumatici che la letteratura abbia prodotto negli ultimi decenni – non è più così giovane e ha un aspetto più femminile, persino più accogliente.

Per chi ha letto e amato i romanzi e conosce a menadito il mondo della saga Uomini che odiano le donne, questo nuovo capitolo della saga, Millennium – Quello che non uccide, presentato in prima mondiale alla Festa del Cinema di Roma, potrebbe essere un piccolo shock, in termini di confezione. Non c’è la sporcizia della trilogia svedese con Noomi Rapace, e nemmeno la raffinatezza, sottile e astratta, sotterranea e psicoanalitica, con cui David Fincher e Rooney Mara avevano portato sul grande schermo Lisbeth nel remake americano.

La Foy, eccellente nel recente First Man di Damien Chazelle e lanciata dalla tv nei panni della Regina Elisabetta II di The Crown, non ha, dopotutto, l’erotismo punk e la fisicità smagrita della Mara e la sua scelta tradisce chiaramente la volontà di portare il franchise verso un’altra dimensione, verso territori diversi, con una dose minore di fratture e contrasti (la sceneggiatura è anche di Steven Knight): più azione, più intrighi, un senso dello spettacolo e un piacere per gli ingranaggi del racconto tipicamente hollywoodiano.

Se qualcosa si perde, qualcos’altro si guadagna. Mikael Blomkvist, giornalista d’inchiesta, in questo film assume non a caso una posizione quasi del tutto subalterna all’interno dell’arco narrativo (adattamento del romanzo omonimo di David Lagercrantz, che portato avanti il lascito dello scomparso autore svedese). Per legittimare e assecondare, a conti fati, il potenziamento delle abilità di Lisbeth, che si fa più monolitica ma incarna in maniera più frontale i flussi della contemporaneità, tra spionaggio di massa, ricadute ed effetti collaterali di un potere digitale, forsennato, imprendibile.

Le immagini e il taglio di Quello che non uccide, in questo senso sono inequivocabili: Lisbeth è diventata, piaccia o no, un supereroe, una James Bond al femminile in tempi in cui di un 007 donna non si è mai smesso di parlare. Immersa fino al collo in un’iperattività tecnologica in cui l’onnipotenza della mente, divisa tra complotti internazionali e scenari geopolitici moltiplicati, duella con i fantasmi del corpo e di un passato familiare con cui è impossibile non fare i conti.

Eliminato, di fatto, il gioco delle parti con Blomkvist, il cuore pulsante del film e il suo massimo aspetto d’interesse è proprio questa tela del ragno aggrovigliata e fortemente attuale, ramificata tanto quanto le intricate trame della temibile società criminale nota come Spider Society e gli scenari globali di oggi. Dominati da una messa in discussione degli impulsi e delle sensazioni corporee, senza dubbio, ma anche da un totale abbandono ad essi, alla pancia, agli istinti primari. Da un lato li si guarda con sospetto, dall’altro li si tende a ritenerli il parametro di giudizio più capace di incidere.

Rimane però una certezza, uno scoglio impossibile da superare, anche per Lisbeth Salander: quello che non uccide, non è detto che fortifichi.

 

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