È il giorno del suo undicesimo compleanno. E la famiglia si è riunita per festeggiarla. Dopo aver spento le candeline, scattato qualche foto e ballato, Angeliki si avvicina alla finestra, scavalca la ringhiera e si butta nel vuoto.
I primi minuti di Miss Violence sono abbastanza eloquenti da farci intuire quello che seguirà. Non perché l’evoluzione della storia sia immediatamente prevedibile, ma perché diventa subito evidente la violenza latente che si cela dentro quelle mura, anche se il nonno scardina la porta della stanza della figlia minore «perché in questa casa non c’è nulla da nascondere».
E invece in quella casa non sono chiare nemmeno le parentele, che infatti vengono a galla lentamente: apparentemente due nonni, due figlie e tre nipoti, più un quarto in arrivo. Ma la realtà è diversa.
Nel film di Alexandros Avranas – premiato all’ultima Mostra di Venezia con il Leone d’Argento per la miglior regia e la Coppa Volpi al miglior interprete maschile (Themis Panou) – non esiste una reale sinossi, se non il tentativo da parte della famiglia di celare ai servizi sociali il motivo per cui Angeliki si è tolta la vita. È dal racconto della quotidianità che lo spettatore riesce a ricomporre i pezzi di un puzzle sconcertante. Imparando a familiarizzare con il dispotismo di un nonno che comanda a bacchetta tutti quanti, infliggendo punizioni ma pretendendo baci; con i silenzi, i pianti e i sorrisi di terrore; con le porte che si chiudono e impediscono di vedere cosa succede al di là, lasciandolo “solo” immaginare; con le lame che incidono la carne; con le promesse mai mantenute, le mani che schiaffeggiano e dominano il corpo altrui.
Avranas sceglie di procedere per sottrazione, non mostrando e non dicendo apertamente, ma usando i dettagli per suggerire la tragica verità. La sua è una regia asettica, quasi chirurgica, che come i suoi protagonisti – spesso immobili e silenziosi – si prende i suoi momenti di stasi e si concede parecchi piano sequenza, che amplificano l’orrore e il senso d’angoscia dello spettatore. Una scelta estetica autoriale, che alla lunga rivela la sua natura pornografica (esplicitata in una sequenza di insistita violenza carnale) e finisce per esasperare e instillare nel pubblico il desiderio di porre fine a quella tortura. Un ritratto di famiglia disturbante, che nemmeno nel finale – apparentemente catartico – riesce a trovare una luce di speranza. Metafora del buio che incombe sulla Grecia di Avranas da tempo.
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Mi piace
La bravura degli attori nell’interpretare e trasferire l’orrore, usando quasi ed esclusivamente il corpo, gli sguardi e i silenzi. Meritata Coppa Volpi a Themis Panou.
Non mi piace
La regia lavora di sottrazione, non mostrando e non dicendo, salvo poi rivelare la propria natura pornografica.
Consigliato a chi
Non si spaventa davanti a film tanto disturbanti, figli di un cinema che mostra le storture e le perversioni della società.
Voto
3/5
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