Adolescente in un sobborgo di Miami, Chiron cresce scontrandosi con la forza d’urto di un microcosmo machista, orientato verso la sopraffazione e l’annullamento dell’altro, unico veicolo per l’affermazione di sé. Chiron ha alle spalle una madre tossicodipendente e un’infanzia scolastica all’insegna delle vessazioni del bullo di turno, con dei compagni che lo chiamano Little e una comunità che lo utilizza come punchball per allenare la propria precocissima voglia di prendere a pugni il mondo, con un’arroganza intimidatoria che si palesa fin dalla più tenera età. Chiron, crescendo, finirà in galera, si dedicherà allo spaccio di droga, smarrirà se stesso e dovrà scendere a patti con un’identità di genere e con un’omosessualità tutt’altro che uniformi ai canoni costrittivi e brutali della società in cui è diventato, suo malgrado e nonostante tutto, un uomo.
In Moonlight il regista Barry Jenkins porta sul grande schermo la vicenda, in parte autobiografica, di un ragazzo di colore costretto a confrontarsi con la propria sessualità nella maniera più problematica e silente possibile, quasi come uno «spook», uno spettro rinnegato da una realtà prevaricatrice che assorda e silenzia, che conforma e deforma. Tale parola, ricordando il peso enorme che aveva nel romanzo La macchia umana di Philip Roth, non a caso può valere, con una connotazione puntualmente dispregiativa, per indicare le persone di colore.
Ed è a sua volta un film silenzioso e quasi spettrale anche Moonlight, che pedina il protagonista in tre fasi diverse della sua vita mettendo in scena, verrebbe da dire, tre vite e una sola morte, ovvero quella figurata di Chiron, che fatica a trovare un contatto tangibile con la parte più intima di sé e vede la propria interiorità smarrirsi e sbalestrarsi di continuo, sotto il peso di una galassia geografica e urbana dai contorni molto precisi e, manco a dirlo, stritolanti. Jenkins sta addosso a Chiron, lo pedina ma intorno a lui costruisce una specie di mondo ovattato, che fa sentire la propria ferocia in maniera attutita e distante, come fosse un dato certo, incontrovertibile, immutabile. E dunque ancora più doloroso.
Le sue scelte di regia assecondano tale lampante contraddizione e talvolta, lavorando sulle sfocature e sulle assenze di baricentro dell’immagine, spiazzano in positivo, a tal punto da sembrare degne di rappresentare il cuore sanguinante ma ormai anestetizzato e perfino assuefatto dell’America suburbana di oggi, quella del black lives matter e delle guerriglie periferiche (qui, naturalmente, siamo in Florida), della violenza porta a porta e di un neo-apartheid più vissuto, in concreto, che declamato a parole.
Più spesso però Moonlight dà l’impressione di essere un film fin troppo levigato e normalizzato, a un livello sia estetico che contenutistico: col passare dei minuti la drammaturgia si appesantisce di elementi didascalici, i personaggi acquisiscono piattezza e bidimensionalità e tutto pare fin troppo dosato nell’ottica di una confezione che riduca la scomodità dell’identità sessuale e razziale a dei nuclei di senso più rassicuranti; una scelta che naturalmente non poteva che rivelarsi vincente in vista dell’edizione più #OscarSoBlack degli ultimi anni, dove il film ha raccolto ben otto candidature e si avvia ad essere l’unico avversario possibile dello schiacciasassi La La Land nella notte delle stelle del prossimo 26 febbraio.
Sotto la superficie spesso innocua e disinnescata di Moonlight si agita però un disagio primordiale per i corpi, raffigurati e inscenati con discreta perizia, e un’accoratezza poetica che avrebbe meritato sicuramente delle soluzioni più originali, ad esempio, dell’ennesimo finale con protagonista il mare in chiave simbolica di rinascita. A riprova di ciò c’è la scena clou del film, che chiude il percorso di Chiron e ha per protagonista il ricongiungimento con Kevin, suo miglior amico, amato fugacemente e di soppiatto. Un incontro orchestrato con gli strumenti purissimi del cinema e una commovente cura per i primi piani, i movimenti, i dettagli, la prossemica, gli oggetti. Ma soprattutto per le scorie dolenti di un passato taciuto, che rivive soltanto attraverso i bagliori di un chiaro di luna sempre più flebile, reso ancora più tenue dalla spietatezza della malinconia e dalla stasi di un dialogo come tanti, anni dopo, da (quasi) estranei.
Mi piace: la cura per i dettagli, l’attenzione allo spazio suburbano di Miami, la messa in scena dei corpi
Non mi piace: la drammaturgia e la sceneggiatura scandita in tre atti, fragile e spesso inerme
Consigliato a chi: cerca un romanzo di formazione viscerale e d’impatto, incentrato sui dissidi di una crescita problematica e controversa
Voto: 3/5
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