“Moonlight” (id., 2016) è il secondo lungometraggio del regista di Miami Barry Jenkins.
Film di storia e di solitudine o meglio di piccoli storie e di solitudini.
Periferia americana, una Miami inguardabile e lontana, una città poco solare, buia, vuota e triste.
Parti minime e minimaliste, divisioni e settori della vita, luoghi fuori e mura come recinti, cerchi concentrici tra bulli e amici, rivalità e strade, angoli e marciapiedi.
Un film che cerca di imprimere lo sguardo diverso e diversificato di una città nel suo microcosmo ma che non riesce andare oltre ad alcuni modi convenzionali e cliché quanto mai flebili e senza vera passione. Una vita che si tinge di colori e di parti ma che non amalgama il costrutto narrativo, anzi trova disorientamento e spaesamento nello spettatore che (forse) cerca un giusto appiglio per ‘entrare’ nel percorso del tempo. I colori si dileguano in cerchi ora blu ora rossi, come uno stacco di fotogrammi, come un errore della ripresa, come un errore vivere in un quartiere malfamato e acido in tutto.
Little-Chiron vive in un ghetto, non ha riferimenti, solo una madre che ha bisogno di droga per tirarsi su, uno spacciatore e solo dei ‘nemici’ a scuola. Trova qualcuno che gli gira attorno, trova Kevin oltre l’amicizia. Tra una città sperduta nelle contraddizioni, lo spaccio, la miseria, la prostituzione facile e il giro di quelli all’angolo delle strade, il quartiere-chiuso è ciò che resta per la vita di Chiron, bambino, adolescente e adulto (le tre parti in cui si divide il film).
Miami come terra di confine, di morte e di vita facile: lo spaccio è la risorsa per avere i denti d’oro e girare da pari in un’auto lussuosa.
Occhi dolenti e lucidi, stanchi e lacrimevoli: mamma e figlio che si inseguono in un abbraccio distante.
Ossimoro e contorto è il mondo perdente di Chiron; inseguito, picchiato, oltraggiato e, poi, appoggiato sulla spalla di Kevin.
Nero e scarno, livido e segnato: così è il tempo che passa per un silenzio che invade la solitudine per tutto fino a quando non squilla il telefono.
Le buone intenzioni del film di dire molto e di più ci sono ma si perdono (o meglio restano in una superficie solo sporca) in un excursus diluito e fin troppo arcaico, languido e introspettivo ma non troppo coinvolgente, documentaristico e sociologico ma poco incisivo. E il melò(dramma) non acuisce né le separazioni, né i linguaggi, né la dicotomia dei volti. Tutto resto in bilico tra un forte e duro messaggio come tra una vile accusa di circostanza verso una società chiusa e amorfa.
La solitudine non è piena di social e di web ma fa il contrappeso al livore di un’interiorità distrutta prima che nasca. Ognuno vive il suo ghetto e a Miami essere gay e nero non è semplice come essere spacciatore con amori repressi (verso altri e verso una madre oramai spenta).
Da ‘Selma’ ad oggi (dopo oltre cinquant’anni) tutti cercano libertà e giustizia: nel Paese a stelle e strisce qualcosa è ancora da fare: il riferimento ad oggi è palese (ma la storia ha bisogno di coraggio).
I personaggi del cast sono anche giusti come le interpretazioni; il bambino e l’adolescente Chiron restano comunque impressi.
Regia e sguardo da routine, convenzionalmente retrò, poco onirica, forse troppo timida.
Voto: 6/10.