Un cinefilo può reagire in due modi di fronte a Motherless Brooklyn, il film di Ed Norton tratto dal romanzo di Jonathan Lethem: amarlo per come ha resuscitato un genere un po’ caduto nel dimenticatoio come l’hard boiled, o biasimarlo per le libertà che non si è preso rispetto alla tradizione (c’è sempre una buona ragione per lamentarsi). La dedizione al materiale di partenza – che Norton ha anche adattato e per il quale si è riservato il ruolo principale – è assoluta: una detective story lunga e appassionante, intricata il giusto, con un formidabile antagonista (Alec Baldwin è il cinema americano, come pochi altri tra i contemporanei) e un protagonista sempre più ammaccato via via che aumenta il minutaggio.
Il film è ambientato negli anni ’50 e racconta le indagini di Lionel Essrog (Norton), private eye di una piccola agenzia il cui principale è stato ucciso durante uno scambio di informazioni. Sulla strada che porta al colpevole troverà (ovviamente) una femme fatale che forse non è chi dice di essere, fumosi jazz club, vicoli pieni di immondizia, amici e traditori che si scambiano i ruoli. La variabile che tira la giacca alla commedia è che Lionel soffre della Sindrome di Tourette, un disturbo ossessivo compulsivo che gli impedisce di controllare quel che dice, specie quando è sotto stress. Un disturbo che dal punto di vista narrativo vale quanto una cicatrice, cioè pochissimo. Eppure serve.
Brooklyn al posto della Chinatown californiana di Polanski dunque, New York invece del Messico di Altman e del suo Marlowe, dentro una città che sta crescendo un ponte dopo l’altro, un parco dopo l’altro, un grattacielo dopo l’altro, verso un futuro che è il nostro presente, facendo pagare il prezzo di questa urbanizzazione alla quota più povera e meno tutelata della sua popolazione.
Perché un film del genere, allora? Perché è sempre la stessa storia ma è comunque un’altra storia. Per rifondare in epoca digitale un immaginario che abbiamo imparato ad amare su carta o su pellicola, “materico” come nessun’altro, e dimostrare che è ancora vigoroso, che esiste in questa forma del noir una potenza che il tempo e la tecnologia e la memoria non fiaccano.
Motherless Brooklyn è magnificamente interpretato, magnificamente scritto, magnificamente messo in scena. Fa giusto due cose che non sono da manuale, e potranno sembrare un po’ naif (delle soggettive, un paio di momenti onirici): magari invece vi piaceranno.
Verso la fine uno dei personaggi si ritrova con una busta tra le mani e una risposta che sperava di non avere. È davanti a un negozio di cappelli, alla fine di una storia in cui i cappelli hanno un ruolo decisivo: l’inquadratura è tagliata in campo lungo e in diagonale, tutto è perfettamente finto. Il foglio vola via, lui urla, è un momento di cinema meraviglioso. Ce ne sono parecchi in questo film, non perdetevelo.
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