Difficile inventar’un nuovo stile, ma ci si può riuscir’e Larraín è fra questi: un formalismo a volte formidabile, i salti d’ambientazione cronologica durante un unico discorso dello stesso personaggio sono geniali e alludon’a una cristallizzazione atemporale del problema. Ma di quale? Pare ch’inventarsi una nuova poetica sia invece incomparabilmente più difficil’e il regista cileno è uno dei nuovi autori che s’accontenta d’accartocciarsi su se stesso: il Racconto sovrastante la storia, realtà e finzione, cinema e verismo, il senso della 7a arte vers’il destino del mondo. Un’autoreferenzialità ch’evita qualsiasi massimo sistema rintanandosi nel metacinematografico: fascinant’e asettico, incantevol’e apatico. Il problema sorge da lontano ed è un’infima eredità lasciataci dal secolo scorso. Sono nati e continuan’a sopravvivere due modelli semiotici contrapposti: quello francese, che dalla linguistica di de Saussure attraverso strutturalismo e post-strutturalismo è giunto a Greimas importat’in Italia da Eco, forma senza contenuto, espressione senza poetica, i “Cahiers” che sbandieran’un Godard secondo cui lo stile in sé è sufficient’alla rivoluzione cognitiva, epistemica, mentale, idem il “Gruppo 63”, etc., e quello del resto del mondo che sostiene un modello assai più articolato d’origine hjelmsleviana, in Italia ne era l’alfier’indiscusso Giorgio Cremonini. Non concordo dunque con la critica di Fofi, in Larraín non vedo astuzia o presunzione ma purtroppo un limite più grave, serio, profondo: la perdurante assenza d’idee contenutistiche originali.
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