“Un affare di famiglia” (Manbiki kazoku, 2018) è il diciannovesimo lungometraggio del regista di Tokyo Hirokazu Kore’eda.
Le aspettative dei luoghi, gli incroci tra le persone, il vivere inerme, lo studio di ripresa di un gruppo. La famiglia come indagine di vita o meglio il silenzio tra persone conviventi: una famiglia che tale non è. Il titolo del film parla dì ‘taccheggiatori’, una strada per vivere la giornata.
Le aspettative, inutile negarle, erano tante prima di entrare in sala. Un qualcosa che non soddisfa c’è. L’evitare di non entrare dentro i personaggi, la sola ripresa quasi da documento, il muoversi poco, gli accadimenti minimi e quasi palpabili. Quando arriva la pioggia e la ruberia può fare cilecca, pare già tutto in anticipo come ogni silenzio dei corpi in movimento.
Che dire, qualcuno ha trovato il film capolavoro e da incorniciare quasi pura poesia, per chi scrive meno: un susseguirsi di piccoli episodi e di vite in attesa dei tempi. Sia dentro che fuori. Importante è mangiare qualcosa, arrangiarsi e, senza conoscersi, potersi aiutare.
Una famiglia che non c’è. Una nonna che ha una pensione. Un uomo che vivacchia con qualche lavoretto in cantiere. Una donna che ogni tanto fa la stiratrice. Un bambino che adopera le mani per rubare tra mercati e negozi. Una bambina in aggiunta che impara il mestiere.
Un film semplice nei gesti e nelle parole dove ogni sguardo sembra complice di qualcuno che stai imparando a conoscere. Una vita soffusa, misera, nascosta. Dentro le mura di una casa piccola, quasi senza luoghi, non delimitata, un gruppo di persone sono in compagnia, complici di silenzi interiori e di vite vissute. Tutto scorre cercando il cibo tra sotterfugi, ruberie, lavori saltuari e la pensione della nonna. Nessuno è padre, nessuna è madre. Per essere madre si deve partorire. Ma sei madre se non partorisci. I luoghi comuni, i gesti giornalieri e le miserie interiori sono lì davanti a loro: tutto va avanti senza tempo, quasi senza contrapposizioni. Ma fuori qualcosa cambia, i tempi si possono interrompere e il lavacro di una pioggia come di una fuga da una piccolo furto trovano il passo ad un cambio che nessuno osserva. Nessuno si accorge di quello che è attorno, ma è l’attorno che entra dentro e vede tutto quello che di famiglia, in gergo arcaico e semplice, non c’è. Praticamente tutto.
Ed ecco che arriva la tv con i giornalisti a frotte, la legge con le domande senza risposta, i cadaveri e gli scheletri reali e veramente nascosti. Il giorno e il suo peregrinare, la notte dormiente, il passare qualche ora lieta, il mare come vero diversivo, lasciano il passo al funereo, macabro è triste mondo che non vediamo.
Quando la bambina passa in tv, con l’appello dei genitori, sembra tutto normale, tutto appare in linea: basta un taglio dei capelli, un cappellino e il viso sembra di una altra. Ma il vivere, anche con la legge è di un bastimento umano indegno, indecoroso anche quando il fare l’amore toglie le soddisfazioni tra due persone sconosciute. La bambina in questo marasma sembra trovarsi bene, basta che ‘non mi picchi’. Una società acre, amara, lignea e con un cuore al contrario. Stare con qualcuno appare difficile, stare con i bambini logico, stare con il rubare e il nascondere corpi è un qualcosa che non ti avvedi. Non si vede nulla. Anche il mangiare è senza preparazione. La vita va avanti, il cibo e la morte si piacciono senza farsi vedere.
Un film che dice molto, un film che lascia segni, un film che distribuisce verità ma il suo porsi, per chi scrive, è una lentezza fuori dalle righe, una dire stretto e un non pronunciamento dei nomi ‘familiari’. Dire ‘papà’ non è semplice. Una partenza, un distacco segnano l’unione tra un adulto e un figlio non suo.
La scena della spiaggia appare delicatamente retrò, un senso di vuoto e spaesamento per una nonna che vede la ‘sua famiglia’ unita. Finale (senza dirlo) o meglio ultima inquadratura che si legge più volte e in anticipo par di capirla. Il realismo senza filtri.
Regia di poco movimento e teatrale.
Voto 7-/10.