“Nome di donna” (2018) è il decimo lungometraggio del regista milanese Marco Tullio Giordana.
Sulla scia della sua filmografia il regista aggiunge una storia sull’emisfero femminile raccontando problemi inerenti le molestie sessuali, il ritegno del nascondimento e lo sfruttamento nel mondo del lavoro.
Ambientazione palladiana (set nella Villa Mazzucchelli in provincia di Brescia), verde rigoglioso, acque pure e in piccole cascate, luoghi quasi lucreziani in una natura di pieno tepore e leggera di posa si nasconde il dietro le mura di un luogo ospitanti anziani come effimero silenzio di vita mortuaria.
Il lusso, la maschera di una vita che fu agiata, l’assenza di parenti e amici, il cancello chiuso e le panchine come segno di colloquio invisibile: questo è il mondo silenzioso, sobrio, borghese e distaccato della Clinica per anziani dove il lavoro di servizio è ‘per conoscenza, di prova e di sottomissione’ per delle donne che vorrebbero essere autonome.
Anche Nina (Cristiana Capotondi) si sposta dai suoi luoghi di origine per avere un lavoro dignitoso e onesto ma di dignità e di onestà vi è solo il ricordo e le storie di qualche anziana che ha voglio di colloquiare e di una certa compagnia.
Non senza gusto, non senza parsimonia, non senza impegno ma certo il film tende, o meglio implica quasi a non volerlo, l’acclarare del piccolo schermo. Con disegni e leggere carrellate di bella fattura che riempiono uno stile classicheggiante per il luogo di ritrovo di persone anziane abbandonate a se stesse. La postura dei posti come postura falsa dei ‘direttori’ (finti) per far ciò che si desidera (e il silenzio di molte).
Non mostrare ciò che si vorrebbe, una ripresa video per avere prove, tutto in tono minore e con una leggerezza quasi prova di non coraggio. Nominare un nomignolo, quasi un piccolo e inutile diminutivo, tra Nina e Ines, poiché ciascuna si ritrova o crede di farlo. Le cornici del passato senza un quadro da appendere. Donna vissuta e una donna che cerca speranza.
‘Nome di donna’ è un film onesto e rituale con pochi piagnistei ma ha un limite di porsi solo come problema senza scavarne l’entità vera e di disegnare i personaggi a tutto tondo. Forse si pretendeva troppo. Compito fatto bene che rischia di essere una fiction di scrittura ‘popolare’ con pochi elementi di approfondimento.
Dimessamente Nina non reagisce (prima) ai soprusi ma la forza viene dall’istinto e (dopo) trova il coraggio di andare contro con pochissima solidarietà e solo inciampi. Il ragazzo che gli è accanto non si allontana quando si arriva al processo. Donna che lavora e uomini che usano (e sfruttano) il potere. Marco Maria Torri (Valerio Binasco), semplice ragioniere, ma che ha l’aria ‘suprema’ di un (farsi chiamare) dottore di facciata e di una faccia ‘da disgusto’. Anche Don Roberto Ferrari (Bebo Storti) ha il ‘cliché’ che ti aspetti: nessuna sorpresa già dall’incipit come negli sguardi processuali. Un senso unico e diretto.
Film di denuncia, di giustizia, di silenzi, di omertà e di coraggio. Un cinema che oramai è di pochi. Più volte ha fatto Marco Rissi. Lo stesso Giordana ha il merito di non lasciare la strada.
Una pellicola che vale per quello che dice ma per il resto tutto appare lisciato, lieve, mai veramente forte e dove ogni sequenza pare già da archiviare. Uscito l’otto di marzo, non a caso, il giorno della festa, della ricorrenza e del ricordo dei diritti e delle (vere) pari opportunità. Poi si legge che Franca Valeri dice ‘non ho lottato una vita per un giorno ma per ogni giorno’: queste più o meno le sue parole sui giornali.
Tutto senza sussulti e con modi lineari, non si arriva a vere e proprie scene madri, denunce e accuse rimangono nel limbo dello strettamente ordinario in un itinerario privo di scossoni. La regia tende a primi piani strutturali e riprese dall’alto quasi di riempimento tra un interno e una visuale di carrellata mentre gli incontri devono avvenire o quando il vestibolo delle lavoratrici sono un sintomo di chiacchiera libera senza corda e nesso vero per un processo che si vorrebbe. Leggermente fiacco nella costruzione ma certamente onesto e vivo nelle intenzioni con alcuni volti liberi di esprimersi ma non un contorno efficace e preciso.
Il volto imbalsamato e con i capelli da opera di Adriana Asti nei panni della grande attrice oramai dimenticata. Ines è quella che ha in camera, sul suo mobile in esposizione: San Luchino (Visconti) e altri ….ricordando la carriera sul palcoscenico con i grandi e adesso lei è sola, è solo grande o anziana per dare consigli di vita a Nina che accudisce, spolvera e fai letti agli ospiti e alle ospiti della casa di riposo…
La scrittura risente di una certo taglio poco intenso; anche il processo (con una ripresa dall’alto del Palazzo di Giustizia quasi all’americana) appare rituale e leggero.
Cristiana Capotondi (Nina) riesce a ritagliarsi una prova positiva ma non riesce a tenere la scena per un intero film. E qui il discorso va oltre la sua interpretazione e riguarda il panorama delle attrici che si rivolgono al grande schermo. O che provano a farlo.
La regia di Marco Tullio Giordana è sinceramente corretta ma appare come un vestito giusto sapendo già misure e finalità.
Voto: 6-/10.