In un collegio di dickensiana memoria disperso nella campagna inglese troviamo alla fine degli anni ’70 tre ragazzini: Tommy, Ruth e Kathy. Come tutti gli altri bambini del collegio obbediscono scrupolosamente alle rigide regole della vita in comune: studiano, giocano, assistono a proiezioni di vecchi film in bianco e nero, organizzano feste. Fanno tutto entro i confini della scuola. A nessuno è concesso uscire dal recinto del collegio e pare che i bambini non ci pensino nemmeno. A tutti è noto il proprio passato e il futuro che li attende: sono cloni generati con lo scopo di donare organi e destinati a morire nel giro di pochi interventi, non appena raggiunta l’età adulta. I tre ragazzini crescono, s’innamorano, si perdono e si ritrovano nei primi anni ’90, sotto un cielo perennemente plumbeo e piovoso: Kathy (Carey Mulligan) è assistente di altri donatori, ma presto, come gli altri, andrà incontro al suo destino, Ruth (Keira Knightley) è in ospedale e morirà di lì a poco, mentre Tommy (Andrew Garfield) vivrà con Kathy una breve stagione d’amore prima dell’ultimo intervento che gli toglierà la vita. Il film è cupo e senza speranza e si fatica ad entrare in sintonia con personaggi che accettano supinamente il loro destino, che non hanno slanci, ma ottundono ogni emozione sotto un’espressione depressa o imbronciata. Tra corsie d’ospedali e toni angosciosi, la pellicola non trova nessuno sbocco, non pone domande e parla di una società futuribile, ma curiosamente datata decenni fa. La sceneggiatura è tratta da un libro di Kazuo Ishiguro (Quel che resta del giorno), la regia puramente esecutiva. La noia è alle porte.
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