Ci sono un cinese, un arabo, un israeliano e un africano che sposano quattro francesi…
Quello che potrebbe suonare come l’inizio di una barzelletta è, a tutti gli effetti, il plot di Non sposate le mie figlie, commedia d’oltralpe del regista Philippe de Chauveron che disegna, attraverso un’ingarbugliata rete di disastri, come si addice alla commedia degli inganni, il quadretto un po’ scomposto di una famiglia tradizionalista e borghese, cattolica e gollista, i Verneuil, che, con i matrimoni delle figlie, diventa interculturale.
Claude e Marie, i capostipiti, che avevano immaginato per le loro ragazze matrimoni in chiesa e consorti cattolici, cerimonia dopo cerimonia, crescono in malumori e insofferenze, tanto che, nemmeno davanti alle fotografie di rito, riescono a togliersi “una faccia da funerale”. Una dopo l’altra, i Verneuil subiscono sconfitte culturali e morali, assistendo con riluttanza tanto al taglio del prepuzio del nipotino a casa dei suoceri ebrei, tanto ai pranzi cinesi gommosi e incommestibili del genero. La loro unica speranza è riposta nella figlia minore che, ancora single, potrebbe dare alla famiglia un matrimonio finalmente conforme ai loro desideri.
La fortuna bussa alla porta quando Laure annuncia di aver incontrato Charles un buon cattolico, di famiglia tradizionalista e rispettoso delle consuetudini: si sposeranno in chiesa e celebreranno le nozze più belle che i Verneuil abbiano mai potuto organizzare. Peccato che Charles, africano di origine, darà ai futuri nonni nipotini meticci e che i suoi genitori dettino legge dalla lontana Costa d’Avorio con un’intransigenza ancora più severa di quella dei Verneuil, rendendo ipotizzabile, nel parapiglia generale, un’unica soluzione: che il matrimonio non s’abbia da fare.
Non sposate le mie figlie, che in italiano perde la sagacia del titolo originale Che cosa avremmo mai fatto di male al buon Dio?, prende gli stereotipi e i clichè più diffusi sulla diversità razziale e li semina lungo la pellicola senza risparmiare nessuno. Con un colpo alla botte e uno al cerchio, nessun personaggio, autoctono o di origini straniere che sia, è infatti esente da colpe e, quando è il turno dell’ultimo arrivato, proprio quegli antagonisti che fino a poco tempo prima si sopportavano a stento, fanno fronte comune per emarginarlo e far saltare il matrimonio. In una commedia che, fedele alle origini teatrali del genere, è popolata da caratteri dai tratti non troppo sofisticati, mossi da archetipi piuttosto inflessibili, ci si aspetterebbe una critica contro poteri costituiti, ideologie e pubblico senza troppe cerimonie, specialmente quando il tema affrontato è quello di per sè spinoso della diversità. Purtroppo invece, a fronte di un corredo di personaggi dalla corporatura caratteriale un po’ fragile, soltanto i patriarchi, interpretati da Christian Clavier e Pascal Nzonzi, riescono a regalare i momenti più riusciti della storia, in una rincorsa al paradosso iperbolica come la comicità popolare richiede.
Con l’ambizione di voler accontentare tutti e di mettere d’accordo il pubblico insieme francese e multietnico a cui potenzialmente si rivolge, (una aspetto che l’Italia, dove gli immigrati di seconda e terza generazione non sono ancora radicati come in Francia, forse faticherà a capire) Non sposate le mie figlie finisce per compiacere più che per puntare il dito: i pregiudizi diventano luoghi comuni e la verve si smorza in nome della par condicio. A ciascuno il suo, ma poi, chiusa la battuta, amici come prima, chè si scherzava.
Il giudizio è quindi parzialmente positivo: Non sposate le mie figlie non è un attacco realmente caustico verso quei discorsi e quei pregiudizi che vorrebbe combattere nella sua dichiarazione d’intenti, ma non è nemmeno un film d’intrattenimento che viene meno al suo ruolo. Si ride nonostante la furbizia di alcuni escamotage e ci si sente coinvolti in prima persona, fino quasi all’immedesimazione, perchè quei pregiudizi (pur essendo ridotti a modi di dire piuttosto innocui) da cui ci sentiamo esonerati, muovono al contrario tanto i personaggi delle etnie rappresentate sullo schermo, tanto ciascuno di noi.
L’unico dubbio che resta, però, dopo questo racconto di peripezie rocambolesche che non può che chiudersi in un allegro e coinvolgente lieto fine, è che il sorriso edificante e sereno che questa storia ci lascia, nella sua ricomposizione bonaria, non ha mai veramente aggredito il problema alla radice. Compito originario della satira sociale a cui l’imperativo soft del politically correct ci ha forse disabituato.
Leggi la trama e guarda il trailer
Mi piace: la capacità di saperci toccare sul vivo, svelando una trama di pregiudizi insiti in ciascuno di noi
Non mi piace: l’incapacità di affrontare in modo realmente caustico la questione della discriminazione e dell’integrazione, finendo per accontentare tutti e non fare del male a nessuno
Consigliato: a chi vuole concedersi una visione leggera e comica senza prendesi troppo sul serio.
Voto: 3/5
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