Texas, 1870, pochi anni dopo la fine della Guerra di Secessione. La giovanissima Johanna (Helena Zengel) è un’apolide della frontiera, due volte orfana: prima della sua famiglia, sterminata dalla tribù dei Kiowa, e poi degli indiani stessi, massacrati dai soldati americani. La raccoglie un reduce dell’esercito confederato, il capitano Kidd (Tom Hanks, che apolide lo era stato in un aeroporto in The Terminal), che decide di riportarla all’unica famiglia che le è rimasta, una coppia di zii che vivono distanti qualche settimana di viaggio.
Kidd è un incrocio tra un cantastorie, un teatrante e un anchorman, una figura che non potrebbe essere un’allegoria migliore del mestiere di giornalista nell’era dell’infotainment: gira per i villaggi del Texas portandosi appresso un mazzetto di quotidiani, leggendo (drammatizzando) da un pulpito le notizie, a pagamento. A San Antonio ha lasciato una moglie e i suoi ricordi migliori, ai quali non può più tornare. Il suo viaggio con Johanna insegnerà a entrambi una lingua comune e un modo nuovo di vivere.
Il luogo e il tempo del film sono una testimonianza esplicita delle sue radici fordiane: sono “sentieri selvaggi” quelli su cui i due protagonisti viaggiano attraverso pianure e deserti, contemporaneamente minacciati dai nativi e dai cani sciolti degli battaglioni scomposti. A queste radici e a questa ispirazione Greengrass sacrifica in modo sorprendente lo stile frenetico e ultra-dinamico che ha segnato la sua carriera di regista di thriller, dalla saga di Bourne fino a Captain Phillips: Notizie dal mondo ha un’impostazione contemplativa e tempi dilatati, gode dei suoi campi lunghissimi, posa le poche sequenze d’azione dentro un dramma interessato più ai caratteri e alle chiavi di lettura del presente.
Il territorio brullo del west in costruzione, i conflitti di una terra feroce che tiene per il collo le minoranze, le minacce della strada e le “diverse” forme assunte dalla legge (come nel caso del paese governato da un grottesco signorotto armato, amante delle fake news) sono la messa in genere della cotton belt trumpiana, al tramonto del suo governo, e l’ennesimo invito alla pacificazione sociale.
È una forma elementare di autorialità quella di Greengrass, intrecciata com’è alla storia del cinema e della nazione: non riserva sorprese particolari e assume la sua maggior quota di senso in sala (quindi ora la perde) o negli articoli di critica politica. Ma risponde anche a un modello di racconto e messa in scena – il viaggio, la paternità putativa, lo scavo nella coscienza di una nazione, la ri-lavorazione di immaginari cinefili – con una misura così accorta che difficilmente deluderà la sua audience.
Foto: Universal Pictures
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