Notti magiche
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Notti magiche

Giovani promesse, venerati maestri, illusioni spietate: l'amarcord romano di Paolo Virzì, canzonatorio e umoristico ma anche disperatissimo

Notti magiche

Giovani promesse, venerati maestri, illusioni spietate: l'amarcord romano di Paolo Virzì, canzonatorio e umoristico ma anche disperatissimo

Notti magiche: la recensione
PANORAMICA
Regia (3)
Interpretazioni (2)
Sceneggiatura (2.5)
Fotografia (3)
Montaggio (3)
Colonna sonora (2.5)

Italia ’90: la notte in cui la nazionale viene eliminata ai rigori dall’Argentina, un noto produttore cinematografico viene trovato morto nelle acque del Tevere. I principali sospettati dell’omicidio sono tre giovani aspiranti sceneggiatori arrivati a Roma dalla provincia, col sogno di sfondare nel cinema. Dovranno ripercorrere la loro storia, fatta di desideri e squallore, incontri folgoranti e personaggi miserrimi, al Comando dei Carabinieri, cercando di fornire la loro versione.

Notti magiche è l’amarcord romano di Paolo Virzì. Un film che il regista voleva realizzare da molto tempo a questa parte e che finalmente, subito dopo la trasferta americana dell’anno scorso con Ella & John – The Leisure Seeker, è riuscito a mandare in porto. Affiancato in sceneggiatura da Francesco Piccolo e Francesca Archibugi, il regista livornese ha dato vita a una giostra rutilante e forsennata di situazioni, un intreccio barocco come forse mai nel suo cinema, a tutti i livelli. Una macchina spara-tutto che si autoalimenta di continuo.

Il risultato, in virtù di tale smodato tono grottesco che attraversa Notti magiche dall’inizio alla fine, con un abbondare incontrollato di macchiette e situazioni paradossali ed estreme, rappresenta una tappa singolare nel cinema dell’autore. Sembra proprio che Virzì, confrontandosi con la stagione d’oro del cinema italiano colta nel suo estinguersi (gli anni ’90, decennio in cui Virzì tra l’altro esordisce) abbia voluto forzare la sua idea di commedia agrodolce facendolo prelevare una disperazione e un disincanto che spingono a mille sul pedale dell’acceleratore.

La fotografia mantiene tonalità malinconiche, con dei colori desaturati che qua e là virano addirittura verso il seppia: un filtro cromatico vellutato che fa a pugni con la paradossalità delle avventure di tre ragazzi cannibalizzati da personaggi cialtroni e squinternati, approssimativi e sopra le righe, a cominciare dallo scombinatissimo produttore fanfarone interpretato da Giancarlo Giannini, alle prese con una caricatura di Vittorio Cecchi Gori e chissà quanti altri. 

Il gioco del film è proprio quello di velare e svelare i riferimenti, anche molto raffinati: qua e là fanno capolino personaggi reali della caratura di Ettore Scola che rimangono abbozzati proprio perché palesemente evocati, mentre quando la creazione di finzione è ricamata sul modello reale (è il caso di Michelangelo Antonioni, per esempio) ci si concede qualche libertà narrativa in più. C’è anche uno squarcio di finzione sul set de La voce della luna, ultimo film di Federico Fellini, datato guarda caso 1990. Un ultimo rantolo di purezza profetica prima dell’avvento delle tv commerciali, sembra dire Virzì.

Tra le altre cose: un Roberto Herlitzka estremamente tagliente e affilato con la sua misantropia cinica e sorniona e dei vaghi momenti sorrentiniani ambientati a Roma, come se Virzì non vi resistesse nell’affrontare la cupezza magniloquente della Capitale (la scena dell’auto che si ribalta nel Tevere mentre tutti guardano il rigore sbagliato da Aldo Serena nella semifinale con l’Argentina). Ma a colpire più di ogni altra cosa, nell’economia di racconto del regista de La prima cosa bella, è la voglia di prendere in giro in maniera anche sprezzante personaggi in disarmo, cialtroni (se della vecchia scuola) o velleitari (se giovani) che siano, a cominciare dai suoi stessi protagonisti, processati insieme alle loro velleità (e al cinema italiano tutto) addirittura da un ufficiale dei Carabinieri.

Senza dimenticare la pietà ma con il minimo sindacabile in indulgenza, in un album di vignette di cinematografari o addirittura una graphic novel, come dice Virzì stesso, nella quale la fa da padrone il qualunquismo narrativo e politico e in cui la stupidità è l’unica forma lecita, tollerata, possibile di cattiveria, anche quando serra il cuore e i sogni in una morsa. Anche perché, in fin dei conti e come insegnavano quei maestri amati e vituperati, geniali e ridicoli, far ridere senza dolore è impossibile.

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